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Capitolo secondo

Linguaggio e dono

Dal momento che utilizziamo il linguaggio nella nostra vita quotidiana e che gran parte del nostro pensiero avviene attraverso il linguaggio, sembra logico che esso abbia un forte impatto su di noi, non soltanto come processo o strumento, ma anche come modello. Il linguaggio ha inoltre il potere di provenire dagli altri, dai molti: è una connessione profonda che abbiamo con altre per-sone all'interno della nostra società; è un elemento importante della nostra socializzazione.

Il fatto che tutte le società umane abbiano un linguaggio non implica necessariamente che esso abbia una base genetica. C'è qualcos'altro che tutte le società han-no in comune: la pratica del "prendersi cura" svolta dal-le madri. La costante sociale non dipende tanto dalla natura biologica delle madri quanto da quella dei figli, che nascono completamente dipendenti: se nessuno si prende cura dei loro bisogni, questi ne soffriranno e moriranno. La soddisfazione dei loro bisogni deve perciò avvenire senza lo scambio, poiché i piccoli non possono restituire l'equivalente di ciò che ricevono.

Chi cura i bambini è perciò costretta a praticare ciò che potremmo definire una sorta di altruismo funzionale. La società interpreta normalmente le capacità biologiche delle donne – come la gravidanza, il parto e l'allat-tamento, allo scopo di assegnare alle donne il ruolo di madre e di nutrice. Alle bambine vengono trasmessi sin da piccole i valori che le porteranno a sviluppare un atteggiamento orientato verso il prossimo, necessario a ricoprire questo ruolo.

Se vediamo la co-muni-cazione come pratica di cura

  1. o dono gratuito che costituisce la co-muni-tà, possiamo concepire le cure svolte dalle donne come il fondamento della co-muni-tà dell'unità familiare. Le famiglie nucleari, e in particolare il rapporto tra madri e figli/e, sono soltanto le vestigia di una comunità basata sulla pratica diffusa del dono che potrebbe essere esistita nel passato

  2. o che potrebbe esistere in futuro. L'isolamento fra loro di nuclei comunitari rende stabilmente debole il model-lo del dono, mentre la scarsità in cui la maggior parte di noi è costretta a vivere ostacola la pratica del dono, imponendo a chi dona il sacrificio di sé e rendendola dun-que "non realistica".

Anche se il nutrimento materiale è ostacolato dalla scarsità, c'è qualcos'altro che è invece disponibile in abbondanza e senza limiti, per la quale quasi ognuno di noi possiede i "mezzi di produzione": è la risorsa inesauribile del linguaggio, grazie al quale siamo in grado di produrre frasi sempre nuove. Il nostro vocabolario è limitato, ma ricombinabile quasi all'infinito. Noi riceviamo gratuitamente parole e frasi da altre persone e le diamo ad altri gratis. Il linguaggio funziona come una sorta di economia del dono gratuito1. Non lo riconosciamo come tale, poiché non avvaloriamo la pratica del dono all'interno della nostra vita economica e in realtà riconosciamo l'esistenza specifica delle pratiche di cura solo nel rapporto madre-figli.È per questo che non ci viene in mente di utilizzare la pratica del dono come un termine di paragone per il linguaggio. Attraverso il linguaggio creiamo quei legami umani necessari, che abbiamo smesso di creare attraverso la co-muni-cazione materiale; il linguaggio ci offre l'esperienza del prenderci cura l'uno dell'altro in uno stato di abbondanza, cosa che non avviene più – o non ancora – sul piano materiale.

Quest'idea mi ha portato a pensare che se il linguaggio è ciò che ha permesso agli esseri umani di evolversi, allora è stato forse l'aspetto del donare-in-abbondanza – e non il sistema astratto – a fare la differenza. Se fossimo in grado di ripristinare una comunità basata sul donare materiale, probabilmente ci evolveremmo ancora, come i sostenitori della New Age e molti altri sperano. Io credo in effetti che sia proprio l'economia dello scambio a impedire la nostra evoluzione.

La logica della pratica materna vuole che chi nutre dia attenzione ai bisogni dell'altra persona; la sua ricompensa è il benessere dell'altro. Esistono molti tipi diversi di bisogni ed è talvolta una sfida comprenderli e provvedere a essi. Il donare e ricevere attraverso un processo continuo crea aspettative e ricompense, una conoscenza dell'altra persona e del bene che soddisfa il bisogno, un impegno verso ulteriori cure e l'aspettativa di un rapporto che perdura nel tempo. Ciascuna persona partecipe risulterà piuttosto cambiata a seguito di questa esperienza.

Anche nel caso in cui i beni materiali non siano disponibili o non vengano utilizzati, può sorgere comunque il bisogno di creare un legame con l'altra persona; lo definirei, questo, un bisogno comunicativo, un bisogno di legami e di relazioni. Le parole sono elementi verbali sociali concepiti per soddisfare i bisogni comunicativi. Il fatto che utilizziamo le parole per soddisfare i bisogni comunicativi riguardo a qualcosa, ci permette di considerare le parole come doni. La madre nutre la propria figlia o il proprio figlio prima di tutto con beni e servizi, ma li nutre anche di parole. La figlia o il figlio è effettivamente in grado di fare a turno con la madre, offrendole verbalmente doni comunicativi prima di poterle offrire doni materiali2.

A questo punto sorge un interrogativo sulla materialità del dono verbale. La parola, benché possa essere identificata come un'unità acustica di cui disponiamo in maniera ripetibile e che condivide tale caratteristica con altre parole, può essere tuttavia utilizzata soltanto per soddisfare i bisogni comunicativi e non direttamente i bisogni materiali: la parola "pane" non soddisfa il bisogno di mangiare. Ma i bisogni comunicativi possono essere talvolta indirettamente funzionali alla soddisfazione dei bisogni materiali. Ad esempio, la frase "nella credenza c'è del pane" può essere vista come un servizio che aiuterà qualcuno a soddisfare il suo bisogno materiale di pane; pronunciare la parola "pane!" in tono di richiesta soddisfa il bisogno di chi ascolta di sapere quello che vogliamo. Potremmo considerare il lessico un insieme di doni che soddisfano molti bisogni comunicativi differenti. Ciascuna parola è una sequenza di fonemi, un programma di comportamenti vocali che può essere identificato dal bisogno o dai bisogni comunicativi che la parola stessa soddisfa.

Bollire un uovo è una sequenza di comportamenti che ha a che vedere con diversi oggetti materiali e che soddisfa il bisogno di mangiare un uovo cotto; pronunciare la parola "uovo" comporta una serie di comportamenti vocali che soddisfano il bisogno comunicativo, instaurando una relazione con altre persone rispetto al-l'uovo o alle uova. La capacità di dare informazioni proviene dallo specificare un'esperienza attraverso l'uso di queste parole-dono, poiché la relazione instaurata non è soltanto con le parole in sé, ma anche con le cose su altri livelli della realtà. La capacità di ricevere informazioni basata sull'uso di parole attribuisce a queste parole un valore nell'ambito della soddisfazione dei bisogni materiali, così come nell'ambito della soddisfazione dei bisogni comunicativi.

Stabilire se le parole-dono siano dei beni piuttosto che dei servizi è come chiedersi se la luce sia composta di particelle o di onde. I diversi tipi di bisogni comunicativi che le parole-dono soddisfano hanno proliferato per farne uso, così come l'occhio e la cornea si so-no sviluppate sul nostro pianeta per fare uso della luce. È anche utile considerare che la materialità delle parole sia situata da qualche parte tra i beni e i servizi, poiché i doni a livello non verbale che le parole rappresentano potrebbero anche variare per gradi diversi di materialità.

Ogni tipo di cosa non verbale è rappresentabile da elementi verbali: dall'amore al colore verde, dalla luna al capitalismo, è così che si creano la co-muni-cazione verbale e la formazione di co-muni-tà linguistiche e talvolta materiali3. Proprio come il dare-e-ricevere materiale di beni forma i corpi fisici delle persone nella comunità, il dare-e-ricevere verbale contribuisce alla loro formazione in quanto soggetti sociali, dotati di identità psicologiche.

Relazioni

Il dare e ricevere parole-dono sistemate in frasi e in discorsi crea una relazione umana tra le persone rispetto alle cose nel mondo. Il bisogno comunicativo è il bisogno di relazione con le altre persone rispetto a qualcosa. Noi stessi non possiamo mettere in relazione l'altra persona con qualcosa. Possiamo però interpretare la sua mancanza di relazione come bisogno di avere un mezzo per creare quella relazione e possiamo soddisfare quel bisogno con una parola-dono. Il bisogno di parlare di qualcosa sorge dalle circostanze in cui le persone si ritrovano. Una persona dona all'altra delle parole-dono che rappresentano (ri-presentano, donano di nuovo) le parti pertinenti del mondo. Noi siamo esseri sociali e il linguaggio ci permette di includere gli altri perché fac-ciano esperienza del mondo assieme a noi.

Se dico "guarda il tramonto", soddisfo il bisogno della persona che ascolta di sapere che in quel momento il sole sta tramontando e di sapere che io ritengo che ciò sia qualcosa che vale la pena guardare. Offrendole que-ste parole (che lei già conosce) nel presente, soddisfo il suo bisogno di avere una relazione momentanea con me e con il tramonto, che corrisponde al mio bisogno di una relazione con lei e con il tramonto. Si presume che io abbia già notato il tramonto e così la mia frase avrebbe lo scopo di includere l'altra persona in quella esperienza, soddisfacendo quello che io percepisco come il suo bisogno di partecipare a quella relazione. La parola "tramonto" è stata fornita dalla società a tutti in genera-le, come una parola-dono che può essere usata per soddisfare i bisogni comunicativi rispetto ai tramonti.

La ricezione creativa di quella parola-dono da parte della persona che ascolta la pone in una relazione umana inclusiva con me e al tempo stesso volge la sua attenzione al tramonto. In questo modo possiamo includerci a vicenda non soltanto rispetto alle parole, ma ci possiamo porre in relazione reciproca in modo simile, attraverso la nostra attenzione a un'esperienza non verbale condivisa. La relazione con un'esperienza non verbale è anche, in una certa misura, un dono, che chiamiamo normalmente "informazione". Se guardare il tramonto insieme può es-sere un'esperienza positiva per entrambe le persone partecipi e, perciò, un'esperienza estetica che soddisfa un certo tipo di bisogno, esistono anche un diverso tipo di informazioni che risultano decisamente negative.

Ad esempio, "ti odio" crea una relazione comune tra noi basata sul mio sentimento negativo nei tuoi confronti. Questo sentimento in sé non è certamente un dono che io ti offro, ma ti sarà utile per sapere che lo provo e in tal senso la mia frase può essere considerata un dono o un servizio a prescindere dalla sua negatività. Credo che esistano nella vita, come nel linguaggio, molti livelli diversi di dono, che sono però rimasti nascosti al nostro sguardo giacché non li abbiamo voluti vedere. Possiamo dirci cose positive e prenderci cura l'una dell'altra in questo modo, ma anche se diciamo cose negative o neutre l'ascoltatrice ha diversi modi di recepire ciò che le è stato dato, trasformandolo in dono attraverso l'uso creativo che potrà farne.

La frase di Karl Marx che ho utilizzato nel frontespizio di questo libro – "il linguaggio è coscienza pratica che esiste anche per altri uomini (sic) e solo per questa ragione esiste in realtà anche per me individualmente" – identifica la logica dell'orientamento verso l'altro come logica della comunicazione. Essa inoltre introduce la seconda domanda sul Graal, "a chi serve il Graal?" o, più semplicemente, "per chi è?". Questo interrogativo, sempre attinente alla pratica del dono, spesso non viene neppure formulato né trova una risposta, in questa nostra società imperniata sul profitto.

Processi generali e particolari

Uno degli aspetti della comunicazione tramite il linguaggio è che essa delimita la gamma di possibili esperienze al momento di un presente condiviso, anche se, certamente, può includere anche altri spazi o luoghi. Es-sa fornisce spesso un tema o una trama intorno a cui possiamo organizzare i nostri comportamenti, rivisitare e interpretare la nostra esperienza in comune. Le trame e gli argomenti delle nostre conversazioni sono anch'essi dei doni che formano un terreno comune sul quale si sviluppano le nostre diverse soggettività.

Penso che il linguaggio funzioni combinando elementi generali e costanti, secondo modalità particolari e contingenti. Possiamo identificare gli elementi generali e costanti ed estrapolandoli dal flusso del discorso, nei processi della denominazione e della definizione. La loro generalità viene messa in evidenza quando vengono "isolati" in questo modo. Ad esempio, la frase "i cani sono quadrupedi che scodinzolano e abbaiano" ci permette di considerare i cani in generale e la parola "cani"nella sua generalità. È comunque l'uso che una comunità fa delle parole sistemandole in innumerevoli combinazioni e in frasi specifiche che dà loro la generalità. Le parole sono il prodotto comune della collettività, ma tali sono anche i bisogni comunicativi generali.

Quando qualsiasi "cosa" diventa pertinente o sufficientemente valida per i molti, allora la gente sente il bisogno di formare relazioni inclusive mutue a suo riguardo e sorge una parola a livello sociale per rispondere a quel bisogno. Se il bisogno di formare delle relazioni inclusive è solo contingente e transitorio, lo soddisfiamo creando una frase, combinando cioè parole che soddisfino i bisogni riguardanti gli aspetti costanti della cosa o dell'argomento in questione. Può sorgere un bisogno comunicativo contingente e transitorio riguardante qualsiasi parte dell'esperienza in corso.

Nella frase "dopo la tempesta il sole faceva scintilla-re le goccioline di pioggia", il bisogno comunicativo contingente di una relazione con altre persone rispetto a una specifica situazione transitoria viene soddisfatto combinando tra loro le parole, che vengono poi usate anche altrove, in altre frasi riguardanti altre situazioni contingenti. Gli elementi di queste situazioni sono volta dopo volta importanti nella società di comunicatori; di conseguenza emerge la necessità comune di un dono verbale che possa essere dato al posto di quegli elementi. Nasce così una parola che funziona come costante per la soddisfazione di quel bisogno4. Una singola parola può anche essere usata per soddisfare i bisogni riguardanti cose di diverso tipo con l'omonimia e un certo tipo di "cosa" può essere il riferimento di parole diverse con la sinonimia.

I bisogni nascono l'uno in funzione dell'altro e i bisogni comunicativi possono sorgere rispetto a contesti sia verbali che non verbali. Se una situazione che dà luogo a un bisogno comunicativo contingente è complessa, possiamo organizzare un discorso combinando frasi, che utilizziamo per soddisfare i diversi bisogni comunicativi contingenti riguardanti quella situazione specifica. Le frasi lavorano insieme all'interno di un discorso per portare avanti un argomento comune e per soddisfare i diversi bisogni comunicativi che sorgono al riguardo.

La pratica del dono è la Ur-logica

Alcuni filosofi e linguisti hanno tentato di spiegare il linguaggio in termini di strutture logiche sottostanti, sia con l'esistenza di un linguaggio più semplice sottostante, che però non spiega il funzionamento del linguaggio in sé, sia con qualche altro processo o struttura elementare. Uno di questi processi è quello di causaeffetto: si pensò che fosse possibile ridurre le strutture soggetto-verbo-oggetto a una struttura basilare di cau-sa-effetto. Un esempio frequente era "John ha ucciso Mary", che veniva "tradotto" secondo il processo di causa-effetto: "John ha causato la morte di Mary". Provo spesso orrore per l'ostilità (probabilmente inconscia) nei confronti delle donne espressa dagli esempiofferti dai linguisti. È forse la prova della colpa che sentono negando il paradigma della pratica materna (Mary?) nel tentativo di spiegare il linguaggio. Successivamente molti linguisti hanno ritenuto che il principio di causa-effetto non fosse un processo al quale ridurre il linguaggio, forse perché non è in grado di dare sufficienti informazioni. Indubbiamente, non tiene conto dell'importanza delle relazioni umane, che invece la pratica del dono considera.

Vorrei proporre la pratica del dono come il processo logico al quale ricondurre il linguaggio. Non soltanto le parole possono essere viste come doni volti a soddisfare i bisogni, ma la stessa struttura sintattica soggetto-predica-to-oggetto può essere considerata derivante da donatore, dono (o servizio) e ricevente. Ad esempio, in "la bambina ha colpito la palla", "bambina" è la donatrice, "ha colpito" è il dono, "palla" è la ricevente; la "traduzione" sarebbe: "la bambina ha dato un colpo alla palla".

L'intenzionalità della pratica del dono può essere individuata in molte azioni umane come anche nell'inten-zionalità del parlare. Il senso di movimento e di completezza che ci viene dato da una semplice frase transitiva è simile al movimento e alla completezza che hanno luogo nella pratica del dono. Il donare è in effetti transitivo, è il movimento di qualcosa da un luogo o da un individuo a un altro. Nella frase passiva "la palla è stata colpita dalla bambina", l'accento è posto sul ricevente del dono invece che sul datore.

La pratica materna è un processo sociale necessario che sta all'origine della vita e questo è anche il momento in cui avviene l'apprendimento del linguaggio. La pratica materna è un universale culturale, richiesto dalla biologia, non degli adulti, ma dei bambini. Ogni diversa cultura patriarcale può considerare che la pratica materna faccia semplicemente parte della natura delle cose, ma per le madri il bisogno di nutrire è sociale e il suo compimento intenzionale. La capacità delle madri di dare il latte è un vantaggio biologico che favorisce il "prendersi cura", ma le donne devono sempre praticare le loro cure in un contesto culturale all'interno di determinati parametri sociali. Nella pratica materna, c'è un trasferimento intenzionale di beni e servizi dalla persona adulta al bambino/a, dalla donatrice al ricevente.

Questa esperienza è fondamentale per i figli/e, poiché le loro vite dipendono da essa ed è al tempo stesso importante e formativa per chi dona le proprie cure – se non altro perché richiede moltissimo tempo. Non c'è da stupirsi che metà dell'umanità venga socializzata sin dal-la nascita alla pratica del "prendersi cura", giacché richiede molta attenzione e impegno. In un saggio recente, The Language Instinct, Steven Pinker (1994) attribuisce le nostre capacità linguistiche al patrimonio biologico; allo stesso modo, fino a non molto tempo fa la pratica materna veniva considerata una prerogativa dell'istin-to. In entrambi i casi, la logica del dono è ciò che viene negato e nascosto.

La condizione del "prendersi cura" è più fondamentale della condizione di oggettività. L'esperienza dei doni gratuiti dati dalla madre e ricevuti dai bambini è più fondamentale per l'essere umano di quanto non lo sia la conoscenza di causa ed effetto. La madre è la donatrice

– la sua cura è il dono o servizio – e il bambino/a è il ri-cevente. Questo processo si compie nel momento in cui il bambino/a sta apprendendo il linguaggio allineandosi con una struttura sintattica di soggetto (donatore), predicato (dono) e oggetto (ricevente)5.

Se le parole sono doni verbali che soddisfano bisogni comunicativi sociali costanti, nella struttura di una situazione di dialogo interpersonale, chi parla sarebbe il datore, le parole e le frasi sarebbero i doni e chi ascolta il ricevente. Le frasi sono combinazioni di parole, che soddisfano bisogni comunicativi contingenti. Non sarebbe inverosimile pensare che il processo di combinazione delle parole possa avvenire anche in funzione della logica del dono.

L'ipotesi che il linguaggio possa basarsi sulla pratica del dare e ricevere ci permette di considerare molteplici diversi livelli su cui essa potrebbe attuarsi, in modo che aspetti del linguaggio che appaiono come misteriosi divengano interpretabili come elementi di un processo di dono su vari livelli. Innanzitutto c'è il livello della comunicazione materiale (la madre offre doni o servizi al bam-bino/a); c'è poi la comunicazione verbale (la madre parla al bambino/a)6. In terzo luogo, le parole sono doni sociali e ciascuna soddisfa di bisogni comunicativi costanti. Quarto, le parole si combinano in frasi, che soddisfano bisogni comunicativi contingenti. Quinto, il messaggio e l'argomento possono anche essere considerati dei doni, come nel caso in cui soddisfiamo il bisogno di una persona di conoscere qualcosa o di parlare di qualcosa. Sesto, a livello della sintassi (all'interno della frase), la relazione tra soggetto, predicato e complemento oggetto rievoca la relazione tra datore, dono e ricevente.

È importante considerare che si tratta di una relazione sintattica che avviene al livello delle parole stesse, poiché al livello delle cose rappresentate dalle parole il "do-no" potrebbe essere negativo, come nel caso di "il ragazzo ha colpito la ragazza", o anche "John ha ucciso Mary" ("tradotto": "John ha dato la morte a Mary"). Al livello della comunicazione materiale tale violenza è contraddittoria e nociva e invece che soddisfare dei bisogni ne crea altri, tormentosi. Tuttavia, al livello di struttura della fra-se, il processo del dono può funzionare indipendentemente dal livello dell'esperienza. Così, le frasi "la ragazza ha colpito la palla", "mia madre ha preparato una torta" e "John ha ucciso Mary" hanno tutte la stessa struttura sintattica – donatore, dono, ricevente – benché sul piano della realtà siano eventi molto diversi tra loro.

A livello della sintassi possiamo anche guardare alle relazioni tra aggettivi e nomi o tra avverbi e verbi come a delle relazioni tra doni e riceventi. Nella frase "il cane marrone è corso velocemente verso il cancello", "marrone" viene dato a "cane", e "velocemente" a "è corso". I filosofi solevano dire che "marrone" fosse una "proprietà" del cane e la velocità una "proprietà" della sua corsa. Marrone può essere definito una "proprietà" poiché viene dato al cane permettendo alla parola "marrone" di modificare la parola "cane" e unendoli come do-no e ricevente trasposti per soddisfare un bisogno comunicativo contingente che nasce dal cane di quel colore.

I linguisti sono soliti seguire un modello matematico, algebrico o scientifico, e non un modello di vita – ma continuano a parlare di parole che "colmano i vuoti (slots)" di altre parole all'interno di una frase. Potremmo considerare i "vuoti" come bisogni e le parole come i doni che li soddisfano. Nel caso di una parola che possa essere collegata soltanto a un altro tipo specifico di parola (ad esempio, un articolo determinativo come "il" può essere collegato soltanto a un nome), si tratta di un tipo di dono che può essere dato solo a un certo tipo di ricevente; solo quel tipo di ricevente avrà quindi un bisogno (un "vuoto") da esso colmabile. Alcune parole o gruppi di parole devono unirsi ad altre; non possono donare i propri doni da sole, ma servono a, o sono servite da, un altro gruppo. Ad esempio, "verso il can-cello" deve essere funzionale; non può restare da solo. Non è di per sé una transazione di doni, né un donatore, ma un dono a un altro dono. Se si formano delle relazioni tra ricevente e dono, forse attribuiamo lo stesso processo alle nostre parole. "Marrone" viene dato a "cane" da chi parla in quel momento, soddisfacendo il bisogno comunicativo generato dal cane marrone. "Cane" riceve il dono "marrone" e si lega momentaneamente a esso.

La trasparenza e il cedere il passo

I doni, che vengono dati al livello verbale, interpretano la "realtà" ri-presentandola in termini di pratica del dono, ma sono di fatto trasparenti sul piano dell'espe-rienza. Nel nostro caso, essi sono trasparenti rispetto all'essere marrone del cane (esso aveva quel colore), presentandolo quale parte di un'esperienza o argomento che coloro che parlano tra loro possono condividere7. La trasparenza della struttura del dono richiama un'altra caratteristica della pratica del dono: chi dona può cede-re il passo, mettendosi da parte per dare valore a chi riceve. In questo senso potremmo pensare che soltanto ciò che diciamo è un dono, dal momento che le informazioni che trasmettiamo vengono comprese e utilizzate da chi ascolta. Non ci accorgiamo che il modo in cui lo diciamo è un processo di dono a più livelli.

A livello della "realtà", le cose che potrebbero essere state dei doni nella comunicazione materiale cedono il passo alle parole-dono, che prendono il loro posto; si fanno amabilmente da parte e lasciano che le parole prendano il sopravvento. In effetti, la natura non competitiva delle cose ci fa dimenticare che molte di esse non avrebbero mai potuto essere in ogni caso trasferite da una persona all'altra. Le idee astratte, i grossi oggetti materiali, le creature della fantasia, gli stati d'animo soggettivi ecc., tutte cedono il passo con uguale serenità, lasciando che il loro posto venga preso e dando valore alle parole che prendono il loro posto.

Su un altro livello, si può dire che le emozioni che accompagnano il nostro discorso e talvolta lo stesso atto di parlare, nutrano gli altri, creando dei legami. Normal-mente non ci accorgiamo delle strutture del dono all'in-terno del linguaggio, proprio perché anche queste si fan-no da parte; cedono il passo per dare valore a ciò che vie-ne detto e a chi ascolta, a chi riceve il dono verbale. Un altro motivo per cui non riusciamo a vedere le strutture del dono sta nel fatto che esse sono diverse dalle strutture della definizione-scambio, e i loro processi non funzionano generalmente allo stesso modo. Le strutture della definizione si appropriano delle strutture del dono come apparati militari costruiti sulle sorgenti sacre delle donne.

La capacità interpretativa della pratica del dono è stata negata e sopraffatta dal fatto di vedere l'interpreta-zione come una sorta di "penetrazione" da parte della mente. Frasi come "il modo in cui le parole sono agganciate (are hooked on) al mondo" e "colmare i vuoti" (Filling the slot) suggeriscono metafore sessuali maschili. Invece, da un punto di vista femminista basato sul mater-no, possiamo vedere la relazione tra le parole e il mondo come una relazione tra doni a diversi livelli, in cui l'in-sieme della realtà stessa è un dono, dai "dati" sensoriali ai "dati" esperienziali8. Il mondo viene reso accessibile agli umani attraverso i doni del linguaggio su molti livelli diversi, che si manifestano nell'invio dei messaggi, nella comunicazione delle idee e delle informazioni e nella trasmissione della cultura. In questo senso, potremmo in effetti chiamare la nostra specie non homo sapiens, ma homo donans. La pratica del donare e ricevere precede il nostro modo umano del conoscere ed è indispensabile alla sua stessa esistenza; è la base di una "grammatica universale" non soltanto del linguaggio, ma della vita.

La transitività

Possiamo individuare la pratica del dono anche sul piano della transitività logica. Il sillogismo su cui si fondava la disciplina della logica ("la relazione di A con B e di B con C implica la relazione di A con C") potrebbe essere visto come la trasposizione della transitività del dono: "Se A dà a B, e B dà a C, allora A dà a C". La logica, come il linguaggio, potrebbe dunque essere vista come derivante dalla pratica materna e non dalla capacità di astrazione. I connettivi logici (articoli, preposizioni, parti del discorso, prefissi, suffissi) modificano il tipo di dono rappresentato dalle parole, dal momento che vengono dati alle parole e vengono così connessi a esse di volta in volta in modo diverso. La risposta a domande sul "come", "quando", "dove" ecc., soddisfa bisogni comunicativi che si sviluppano attorno alla capacità stessa di dare e ricevere.

Quando un'esperienza che viene descritta non è una effettiva transazione del dono, potremmo comunque utilizzare la struttura del dono per dare il nostro messaggio all'ascoltatrice: "Il cane marrone è corso velocemente verso il cancello" è "intransitiva". Il cane è dato in senso ostensivo: esso ci "presenta (dona) quel comportamento" in modo che noi lo percepiamo. L'informazione aggiuntiva data da "verso il cancello" aumenta l'aspetto funzionale della frase specificando dove sia diretto il comportamento della corsa; "verso il cancello" serve "è corso" dandogli una collocazione, rendendolo più specifico.

Il patriarcato ha assegnato l'"attività e creatività" agli uomini e la "passività e ricettività" alle donne, poiché è rimasto cieco rispetto alla creatività del donare e ricevere. Sia il donare che il ricevere sono creativi; è necessario utilizzare ciò che ci è stato dato per renderlo un dono; se non lo utilizziamo viene sprecato, rimane senza vita. Il fatto che la capacità di ricevere sia altrettanto importante della capacità di donare si manifesta nella nostra capacità di trasformare le frasi attive in passive e viceversa. Così, chi è stata ricevente in un dato momento può diventare donatrice in un altro, passando a sua volta il dono: "La ragazza ha colpito la palla, che ha colpito la finestra".

La stessa persona che parla potrebbe essere considerata come ricevente di un'esperienza, che poi trasmetterà a sua volta a chi ascolta. La persona che parla potrebbe quindi essere considerata il termine intermedio di una transazione del dono: "A dà a B e B dà a C". Questa persona (B), descrivendo un evento, passa a qualcun altro (C) il dono che le è stato dato dalla vita, da "come sono le cose", dalla realtà (A). Chi parla offre un dono che coinvolge anche la sua ricettività creativa: avrà già necessariamente operato una selezione di alcune caratteristiche della sua esperienza in quanto più importanti di altre; la sua rappresentazione (il suo donare di nuovo) dà valore agli elementi da lei scelti.

Anche la persona che ascolta darà maggiore importanza ad alcuni elementi tra quelli che le sono stati dati; collaborerà attivamente alla creazione del prodotto che riceve. A causa degli stereotipi di genere e per l'impor-tanza attribuita allo scambio nella nostra società, sembra che gran parte dell'attività umana (maschile) non sia un dono e non sia diretta al bisogno. Riportare il paradigma del dono al suo ruolo centrale nell'insieme dei registri interpretativi attraverso i quali ci rivolgiamo al mondo ci permette di capire che la maggior parte dell'"attività" umana è orientata verso la soddisfazione di un bisogno a un qualche livello. Il linguaggio appare di conseguenza non come una concatenazione meccanica di attività (verbali), ma come un insieme di doni e di modi di donare e ricevere, allineati con i bisogni comunicativi, che nascono dall'esperienza e si sviluppano su molti livelli diversi, dal momento che esistono moltissimi mezzi disponibili per la loro soddisfazione.

1 Molte delle parole che utilizziamo per riferirci al linguaggio sono parole dono: "attribuire" una proprietà; "dare" un significato a qualcosa, "trasmettere" un messaggio o informazioni. Il linguaggio, il mezzo di espressione collettivo, ha parlato di sé ma noi non gli abbiamo prestato attenzione perché stavamo ascoltando il patriarcato. Il linguaggio non diceva quello che ci aspettavamo dicesse. Lo abbiamo invece guardato secondo una metafora po-stale: il confezionamento o la codificazione delle informazioni, l'invio e la successiva apertura della confezione o decodifica. Penso che la metafora po-stale sia solo un modo per tenere nascosto il dono.

2 Vediamo il mondo attraverso le lenti dello scambio, perciò potremmo tendenzialmente vedere il fare a turno come uno scambio. La motivazione del fare a turno non è reciprocità forzata, bensì condivisione, dare e ricevere alternato e comunicazione.

3 Secondo l'Oxford English Dictionary, la parola thing ("cosa") proviene dal termine che in antico norvegese significava "corte"; a mio parere questo implica un giudizio collettivo sul valore di elementi culturali. Mi sento giustificata quando considero sia le parole che le cose non verbali, di varia intensità e diver-so tipo di materialità, secondo i termini di un giudizio collettivo del loro valore.

4 I bisogni che danno luogo a espressioni idiomatiche possono essere situati da qualche parte tra la costanza della parola e la contingenza della frase.

5 Il fatto che esistano diverse varianti in cui queste funzioni vengono espresse nelle differenti lingue, rispetto all'ordine delle parole o alla sintassi, non esclude l'ipotesi che il dare e ricevere possano costituire strutture di comportamento universali dalle quali le varianti sono poi derivate.

6 Inclusa nella gamma, tra pratiche di cura materiali e linguaggio, c'è anche molta comunicazione non verbale; seppure il linguaggio si trovi all'estre-mità più astratta della gamma, dovrà essere compreso per primo per vedere la comunicazione non verbale alla luce di esso.

7 Allo stesso modo, "una donna malata" attribuisce la malattia alla donna secondo una struttura del dono, creando un tema condivisibile benché la malattia non sia un dono da essere condiviso.

8 I doni, sia verbali che non verbali, non sono arbitrari, dal momento che vengono dati per soddisfare i bisogni e creare relazioni specifici. I doni sostitutivi comunque non hanno bisogno di apparire come gli originali, né di echeggiarli onomatopoeticamente.


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