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Capitolo quinto

Il concetto di uomo

Così come il linguaggio, anche la capacità di costruire i concetti può essere attribuita a meccanismi biologici o alla socializzazione. Esistono diverse teorie in proposito: c'è chi sostiene che la nostra capacità di riconoscere l'affinità tra le cose dipenda dal patrimonio genetico; altri ritengono che l'essere umano formuli i concetti in base a un processo di confronto e generalizzazione. Secondo alcuni, tale processo si fonda su un prototipo, forse sull'immagine del primo esemplare di qualcosa o di un membro di una categoria che un bambino/a incontra nell'ambiente circostante; attraverso ripetuti confronti tra oggetti di uno stesso tipo, il bambino/a astrae alcune caratteristiche comuni. Un esperimento in questo senso condotto negli anni Venti dallo psicologo sovietico Lev Vygotsky (1962) è stato un precursore della teoria del prototipo, e Vygotsky potrebbe (dovrebbe) essere identificato con tale orientamento della psicologia.

Uno-molti

Vygotsky ha delineato alcuni stadi nello sviluppo del concetto che conducono a uno stadio finale in cui il prototipo o l'oggetto "esemplare", è giunto ad assumere una posizione stabile nella relazione uno-molti con determinati oggetti con esso confrontati, escludendo altri oggetti riconosciuti come differenti. I molti oggetti han-no acquisivano inoltre una relazione reciproca comune, a seguito del confronto con l'esemplare che ha permesso di riscontrare una stessa somiglianza tra loro. Ciò ha generalizzato l'esemplare e la caratteristica comune degli oggetti simili tra loro si presentava come un riflesso di quella generalità. All'esemplare era stato assegnato un nome e questo è stato dato anche agli oggetti che possedevano la stessa caratteristica comune.

La descrizione dell'esperimento di Vygotsky è general-mente quella proposta da Hanfmann e Kasanin (1942):

Il materiale utilizzato nei test per la costruzione del concetto consiste in 22 blocchetti di legno di diversi colori, forme, altezze e dimensioni. Vi sono 5 colori diversi, 6 forme, 2 altezze (i blocchetti alti e quelli piatti) e 2 dimensioni della superficie orizzontale (grande e piccola). Sul lato inferiore di ciascuna figura, che non può essere visto dal soggetto, viene riportata una delle seguenti quattro parole prive di senso: "lag", "bik", "mur", "cev". A prescindere dal colore o dalla forma, "lag" è scritto su tutte le figure grandi e alte; "bik" su quelle grandi e piatte; "mur" su tut-te le piccole alte e "cev" su quelle piccole piatte. All'inizio dell'esperimento, tutti i blocchetti (mescolati tra loro quanto a colore, forma e dimensione) vengono disposti in ordine sparso su un tavolo davanti al soggetto. L'esa-minatore rigira uno dei pezzi (l'"esemplare"), lo mostra e ne comunica il nome al soggetto, chiedendogli di prendere tutti i blocchetti che ritiene possano appartenere allo stesso tipo. Dopo che il soggetto ha terminato questa prima fase, l'esaminatore volta uno dei pezzi scelti in maniera "non corretta", gli spiega che si tratta di un tipo diverso e lo incoraggia ad andare avanti; alla fine di ogni tentativo viene rigirato un blocchetto al quale è stata data una collocazione errata. Man mano che aumenta il numero dei blocchetti voltati, il soggetto acquisisce per gradi una base di riferimento per scoprire a quali caratteristiche dei blocchetti rimandino le parole prive di senso.

Appena il soggetto scopre il meccanismo, le "parole" passano a indicare un tipo determinato di oggetti (ad esempio, "lag" i blocchetti alti e grandi, "bik" quelli grandi e piatti), e vengono così costruiti nuovi concetti per i quali il linguaggio non fornisce un nome. Adesso, il soggetto è in grado di portare a termine il compito di separare i quattro tipi di blocchetti indicati dalle parole senza senso. Così, l'uso dei concetti ha un determinato valore funzionale per la prestazione richiesta dal test. L'uso effettivo del pensiero concettuale da parte del soggetto nel tentare di risolvere il problema può essere dedotto dalla natura dei raggruppamenti che egli costruisce e dalla procedura che utilizza per costruirli; quasi tutti i passaggi del suo ragionamento si riflettono nella manipolazione dei blocchetti. Tutte queste fasi dell'esperimento – il primo approccio al problema, il trattamento dell'esempla-re, la risposta alla correzione, la scoperta della soluzione – forniscono dati che possono servire da indicatori del livello di pensiero del soggetto.

La struttura del concetto uno-molti in sé è importante per la psicologia cognitiva, mentre la dimostrazione sperimentale di Vygotsky riguardo le diverse possibilità ("erronee") di uso dell'esemplare rivela anche ciò che non avviene nel ragionamento concettuale unomolti. Due delle possibilità di ragionamento "errato" lo dimostrano chiaramente: il complesso "nome di famiglia", in cui l'esemplare rimane stabile e le caratteristiche secondo cui gli altri oggetti vengono trovati affini a esso variano; e il complesso della "catena", in cui il carattere uno-molti si perde perché in un oggetto si riscontra una caratteristica affine all'esemplare e nel seguente viene rilevata un'affinità con il secondo oggetto ma per una caratteristica diversa, e così via. Le strategie "errate" mostrano l'importanza di mantenere stabile l'esemplare e di tentare di ricavare un principio generale confrontando ripetutamente degli oggetti con l'esemplare secondo le medesime affinità. Alla fine del

Figura 6. Visualizzando l'esperimento di Vygotsky.

Illustrazione immaginario dell'esperimento di Vygotsky Parole mur bik cev lag

Figura 7. Visualizzando l'esperimento di Vygotsky.

Illustrazione immaginaria dell'esperimento di Vygotsky, 2

L'esemplare è costante e gli oggetti sono in rapporto a esso e l'uno all'al-tro riguardo alle stesse somiglianze test, l'esemplare non sarà più necessario, poiché è stato riconosciuto che un determinato tipo di oggetto ha uno dei nomi che erano stati assegnati ai diversi tipi di oggetto nell'esperimento.

Ci ho pensato a lungo, e mi sono resa conto che la parola in realtà prende il posto dell'esemplare e ne assume la generalità. Questo mi ha offerto una seconda caratterizzazione delle parole, che ho potuto aggiungere alla mia precedente descrizione delle parole come doni in grado di soddisfare un bisogno comunicativo. In effetti, la parola-dono era adatta per prendere il posto del-l'esemplare, che non sempre poteva essere dato in quanto tale e che in genere non poteva forse rimanere stabile a lungo, se non come immagine. La parola, al contrario, con la sua infinita ripetibilità, ha la facoltà di essere "la stessa cosa" anche quando ogni sua manifestazione è in pratica un evento sempre diverso. Assumendo la funzione uno-molti dell'esemplare, la parola contribuisce a organizzare il concetto stesso, così che i componenti del concetto vengono considerati affini tra loro grazie alla relazione comune con il loro nome, oltre che alla comune relazione con l'esemplare.

Una volta stabilita la relazione di similitudine tra gli oggetti in base alle stesse caratteristiche, l'esemplare non è più necessario e la parola può portare gli oggetti alla mente come tipo da sola. Questo perché nella relazione uno-molti si stabilisce una polarità per cui l'uno è man-tenuto come punto di riferimento mentre i molti sono confrontati a esso uno per uno. Prendendo il posto dell'"uno", la parola mantiene la polarità continuando a sostenere la relazione dei "molti" fra loro oltre che dei "molti" rispetto a essa (v. Figg. 8 e 9).

L'esemplare o prototipo deve essere tenuto fermo con le sue caratteristiche. Altrimenti, non possono essere costruiti un tipo o una categoria rispondenti e i nostri pensieri potrebbero vagare da un'associazione all'altra. Tut

Figura 8. Immagini schematizzate degli stadi della formazione del concetto.

 

tavia, qualunque cosa appartenente a un determinato ti-po potrebbe essere scelta in origine quale l'"uno", ed es-sere quindi mantenuta salda quale "esemplare"; poi, una volta costruita la categoria, l'esemplare potrebbe retrocedere dalla sua posizione uno-molti e tornare a essere sol-tanto un componente di quella categoria. Sottolineo vo

Figura 9. L'esemplare diventa solo un altro membro dell'insieme, il suo posto viene preso dalla parola.

 

lutamente questo aspetto, poiché ritengo che la posizio ne dell'"uno" (dell'esemplare) sia stata largamente frain tesa intendendola come elemento costitutivo nella defi nizione di genere e perciò eccessivamente enfatizzata, in vestita di privilegi speciali e proiettata nelle strutture della società come forme auto similari su molteplici livelli.

Il padre e la sua famiglia, il re e i suoi sudditi, il gene-rale e il suo esercito, il dirigente e la sua impresa ecc., incarnano la relazione polare uno-a-molti che si costituisce nello sviluppo del concetto. La relazione tra il denaro e le merci1 è anch'essa un'incarnazione del concetto, e possiamo servirci di questa relazione polarizzata tra gli oggetti per chiarire e comprendere la relazione uno-molti tra le persone. Anche la relazione tra una persona e la sua proprietà può essere vista come una relazione unomolti derivante dalla struttura del concetto (investita del genere), (anche se forse assomiglia più al complesso "nome di famiglia").

L'"uno" privilegiato

Privilegiare la posizione dell'esemplare è particolarmente pericoloso poiché la polarità e i concetti costruiti col suo aiuto sono essi stessi, in origine, modi utili e innocenti di organizzare i nostri pensieri e le nostre percezioni. Si tratta di un livello di pensiero molto profondo e basilare, investito dalla tendenza nociva a privilegiare la posizione dell'uno. Proprio perché è così fondamentale, tale "investitura" è difficile da esaminare, e la proiettiamo all'esterno per riuscire ad affrontarla. Dal momento che non pensiamo mai di ricondurre le origini del nostro strano comportamento uno-molti allo sviluppo del concetto, continuiamo a inscenare questo processo a diversi livelli della società, creando strutture che potranno interagire tra loro, competere, sostenersi a vicenda e continuare a riprodursi in analoghe gerarchie uno-molti. Queste strutture prese insieme costituiscono quei sistemi sociali auto-propaganti chiamati "patriarcati"2.

All'origine di questi sistemi si trova, ancora una volta, la questione dell'identità di genere maschile e della mascolazione. Gli uomini sono stati presi come esemplari per creare la categoria dell'"umano". La differenziazione di genere della categoria "bambini maschi" dalle loro madri nutrici ha dato l'illusione che i maschi debbano diventare "esemplari" (detentori della posizione dell'"uno"), per poter essere inclusi fra gli "umani". Le donne li hanno alimentati in tal senso, cedendo il passo, non presentandosi come "une" con le quali i molti si sarebbero dovuti confrontare per trovare la loro identità di "umano". Le donne sono apparse carenti, quindi deficitarie rispetto alle presunte caratteristiche umane che gli uomini invece possiedono. Il pensiero astratto, l'ag-gressività, l'individualismo, il comando, l'autonomia (caratteristiche che hanno a che vedere con il raggiungimento della posizione dell'"uno" attraverso la competizione) sono apparsi "umani", mentre le donne sono sembrate "esseri umani inferiori" poiché quelle non era-no le loro priorità.

Le donne hanno in effetti continuato a praticare il paradigma del dono, ogni qualvolta ciò non era reso impossibile dalla scarsità, la guerra, e la violenza individuale di vario tipo. Ci si è interrogati per secoli sul significato del concetto di "umano", mentre i filosofi hanno continuato a non considerare le donne esemplari appropriati per quel concetto. Nel frattempo, il paradigma del do-no (che le donne continuavano a praticare) era e continua a essere la fonte del significato, della comunità e persino della vita stessa.

Quelle che abbiamo considerato caratteristiche che definivano il genere maschile sono in realtà proprie della posizione dell'"uno", combinate ai modelli del prende-re-il-posto-di derivanti dal ruolo della parola nella definizione e nel denominare. Questi sistemi vengono fatti propri dai bambini maschi per realizzare la profezia che si autoavvera del loro concetto di genere, in quanto differenti dalle loro madri. La posizione dell'"uno" che detiene il padre nei confronti della famiglia in quanto mol-ti, corrisponde a ciò che il figlio dovrà conquistare se vorrà essere chiamato "uomo". L'ingiunzione edipica non sarà quindi tanto quella di uccidere il padre, quanto conquistare la sua posizione di "uno".

La semplice considerazione logica che non tutti possono essere "l'uno" in un sistema polare e che questa sia una caratteristica relazionale e non permanente, può non apparire evidente ai bambini ancora in tenera età. Il mandato del genere maschile sembra recitare: "Sii diver-so dalle donne e cresci per essere uguale o più grande di tuo padre, per essere in grado di assumere la sua stessa posizione e meritare così l'appellativo di ‘uomo'".

Il bambino è relazionato all'esemplare donante, prima di cominciare a comprendere le implicazioni della denominazione del suo genere; poi, la parola "bambino" lo sottrae dalla categoria della madre. Così, il ruolo paterno di appropriazione e di predominio potrebbe derivare dalla capacità della parola di allontanare il bambino dal suo identificarsi con la madre. La capacità di mettere le cose in categorie sembra essere una prerogativa del padre e un aspetto del ruolo dell'"uno": il padre è la norma (come il denaro), e questa norma ha la capacità di parlare e (poiché prende il posto dell'esemplare madre) di essere la parola, che crea categorie e divide. Ogni giudizio rimanda al potere che lui (o la parola che è la denominazione del suo genere) sembra aver avuto, per dividere il maschio dalla femmina.

Il rapporto che il bambino ha con il padre diventa d'in-feriorità, il rapporto dei molti rispetto all'uno, della proprietà rispetto al proprietario, delle cose rispetto alla parola o all'esemplare (un esemplare che non alla pratica il donare). La mascolazione è una sorta di dis-umanizzazione originaria, poiché il modello del padre è oggettivato, come una cosa non umana. Le donne vengono definite come "non (nemmeno) quello", mentre il rapporto tra i membri del concetto di "uomo" è sopravvalutato.

Nel racconto biblico di Giuseppe e dei suoi fratelli, la situazione è quella di molti fratelli che competono tra loro per assumere la posizione dell'"uno", l'eredità del patriarca; il sogno di Giuseppe sui covoni di grano con il sole, la luna e le stelle che s'inchinano dinanzi a lui esprime simbolicamente questo tipo di relazione. Quando un bambino prende il padre come esemplare per for-mare il concetto di sé, egli è parte dei reali o potenziali "molti" rispetto all'"uno". La sua identità di genere può sembrare corrispondere a una lotta competitiva con gli altri membri dello stesso genere per conquistare la posizione dell'"uno"; il padre probabilmente farà lo stesso nella sua vita lavorativa. Prendere-il-posto-di può apparire inoltre come il mandato del ruolo di genere in quanto i maschi prendono-il-posto delle femmine; e l'esem-plare maschio (e la parola) prende-il-posto dell'esempla-re femmina e della sua pratica del dono.

Così, quello che i bambini percepiranno in tenera età quale loro ruolo di genere è l'incarnazione della posizione dell'esemplare stesso, e una parziale incarnazione della parola. Trovarsi sullo stesso livello dell'esemplare o es-sere come lui, e prendere-il-posto di altri diventa fondamentale per l'identità maschile, mentre l'orientamento verso l'altro e la pratica del dono restano principi propri dell'identità femminile. Fare del maschio l'esemplare per la formazione del concetto di "umano" elimina l'impor-tanza percepita del donare. Le femmine (e altri maschi) continuano ciononostante a donare ai maschi le cui identità sono costruite in questo modo, privilegiandoli e soprattutto premiando coloro che raggiungono la posizione dell'"uno". Perciò, la pratica del donare sostiene tale processo di costruzione dell'identità, persino quando ne è negata l'esistenza ed essa è giudicata un comportamento "inferiore" (meno che umano) e "istintivo". La pratica del dono permea le attività umane ed è ancora il mezzo con cui trasmettiamo beni e messaggi, comunichiamo e formiamo la nostra comunità; essa è stata tuttavia alterata, e utilizzata per gli "uni" contro i "molti". A tutti viene insegnato sin dai primissimi giorni di vita di mis-cono-scere la pratica del dono e assegnarle altri nomi ("attività", "lavori domestici", "tempo libero", "plusvalore","profitto"). È solo dal momento in cui cominciamo a riconoscere le dinamiche dei due paradigmi, che possiamo infine dare il giusto valore e attribuire i nomi appropriati alla pratica del dono.

Il Verbo incarnato

Nel processo di mascolazione, i maschi si incarnano come doni sostitutivi, prendono-il-posto della madre, adottano l'esemplare del padre e rinunciano al donare3. È il momento del "peccato originale", quando il bambino scopre che non potrà partecipare al modello comunicativo del donare materiale a causa della definizione del suo genere.

Forse il maggiore (e minore) errore dell'umanità è stato dare alle figlie e i figli nomi di genere distinti, un errore inconsapevole ma terribile, pesante come un frammento della piuma sulla bilancia di Maat. Ci chiediamo a volte perché lo Spirito del Bene non ci abbia distrutto, dati tutti gli orrori che abbiamo commesso, genocidio, violenza, stupro etnico, violenza e percosse sui bambini, distruzione e inquinamento di mari e terre, assassinio di specie e individui, tortura fisica e mentale; forse perché l'origine di tutti questi orrori sta in quel-l'innocente equivoco, così facile da compiere.

Abbiamo incarnato la parola, il processo del denominare stesso, e la parola che abbiamo incarnato è "maschio". Non era altro che una parola, ma abbiamo lasciato che dominasse sulla nostra psicologia e sulle nostre strutture sociali; l'abbiamo usata per alienare metà dell'umanità dalla norma del donare.

Dopo aver alienato i nostri figli nella categoria del nondonare, noi (madri e padri) attribuiamo loro una posizione iperprivilegiata e li ricompensiamo, dando loro di più che alle nostre figlie. In seguito, cerchiamo di insegnare loro l'altruismo attraverso la moralità dell'autoritarismo e i precetti religiosi derivati dalla "Legge Divina". Ci chiediamo poi perché sia così difficile riuscirci, e per spiegarne la difficoltà affermiamo che la "natura umana" è crudele.

Ci troviamo ora davanti a un bisogno comunicativo per tutta l'umanità: il bisogno di un nuovo termine che possa mediare le nostre relazioni con i nostri figli/e. Abbiamo bisogno di una nuova parola-dono per tutte quelle piccole creature che sono il nostro dono migliore alla nostra comunità, al futuro e a loro stessi/e. Facendo uso di questa nuova parola-dono, di un termine per entrambi i generi, potremmo smettere di alimentare quei problemi che stanno distruggendo le nostre specie, le nostre madri e la Madre Terra.

1 Cfr. il discorso di Marx sul denaro come "equivalente generale", nel primo libro del Capitale (1867-94).

2 L'esperimento di Vygotsky ha dimostrato la capacità dei bambini/e di identificare consapevolmente i concetti e di utilizzare le strategie di pensiero concettuale nella pubertà. Studi più recenti della psicologia dello sviluppo hanno mostrato che i bambini/e sembrano utilizzare il modello della relazione basata sul prototipo sin dall'infanzia. A mio avviso, l'esperimento di Vygotsky ha verificato un determinato livello di coscienza nell'uso del concetto. È interessante notare ciò che Carol Gilligan et al. (1990) hanno scritto riguardo la scelta che operano le fanciulle in età puberale tra due modalità, che mi sembrano molto simili a quelle del dono e dello scambio. Forse sia il pensiero uno-molti che la tendenza a privilegiare il maschio raggiungono un nuovo livello di enfatizzazione nella pubertà.

3 La transizione stessa somiglia moltissimo allo scambio come vedremo nel capitolo Il mercato e il genere.


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