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Capitolo diciannovesimo

Sogno e realtà

Io penso che la separazione tra conscio e subconscio possa essere una sorta di riproduzione interiore dei due paradigmi e (forse anche l'emisfero destro e sinistro delcervello riproducono questa separazione). È ovviamente difficile capirlo perché, almeno quando siamo svegli, è sempre all'interno della coscienza che siamo presenti a noi stessi; e nella coscienza, spesso serviamo la nostra definizione di noi stessi, attuando le sue profezie che si auto-avverano.

I doni delle parole covano negli strati profondi della nostra mente, pronti a saltare fuori quando è necessario. Sono lì che vibrano, in risonanza con le parole dello stesso tipo di tutte le altre persone. Muovendoci nel mondo esterno, ogni cosa in cui ci imbattiamo assume la caratteristica di un potenziale rapporto con le nostre parole e le loro combinazioni, e/o con le parole degli altri. I nostri bisogni comunicativi di legami reciproci in relazione con il mondo sorgono e vengono soddisfatti dai prodotti collettivi delle generazioni precedenti, che noi ricombiniamo collettivamente e individualmente e che usiamo poi per creare doni sempre nuovi, a cui le parti del nostro mondo sono legate come loro sostitute nella comunicazione.

Noi creiamo le nostre soggettività ad hoc, insieme, dando doni l'uno all'altro a un livello sia materiale che linguistico. Il grosso potenziale perché ci sia sviluppo umano attraverso questo processo è intralciato dal patriarcato. Ci rimane ancora sufficiente umanità collettiva per continua-re a capire i discorsi l'uno dell'altro, a trasmetterci informazioni e a funzionare come promotori più o meno efficienti degli ego che abbiamo sviluppato attraverso la definizione, l'auto-definizione e lo scambio. Il fatto che in qualche modo continuiamo a vivere non è una prova della funzionalità dell'ego mascolato, bensì della creatività della pratica del dono e della vita stessa, che ci portano con sé nel loro fluire nonostante il guscio vuoto auto-riflettente dell'ego e nonostante la società auto-similare.

Nel patriarcato, la comunità che formiamo attraverso la comunicazione viene generalmente frantumata in mille pezzi oppure resta un desiderio, un'astrazione che fluttua da qualche parte dietro di noi (un "avrebbe potuto essere", un ideale, un diverso mondo possibile). Le nostre parole-doni sono state rivolte agli scopi dello scam-bio attraverso la pubblicità e la propaganda, e le nostre motivazioni seguono una lista di priorità che definisce noi e gli altri, ponendoci in alto come uni privilegiati, sostenuti dai possedimenti o dalle relazioni e posizioni al-l'interno di altre gerarchie. Non ci rendiamo neanche conto della presenza della società nelle nostre parole, an-cora meno nella nostra vita, perché la proprietà privata (anche delle nostre coscienze) non c'incoraggia a guardare al di fuori, agli altri come fonte del nostro bene o come persone con dei bisogni che noi possiamo soddisfare. I nostri pensieri sembrano essere "nostri", perché siamo isolati dagli altri. Invece, come individui siamo la comunità alienata, che pensa.

Se potessimo tornare al dare cure materiali, ricreeremmo la nostra comunità e noi stessi su una base terre-na più solida, curandoci l'un l'altro e curando il pianeta. Invece guardiamo ai valori dell'ego e non ai corpi; gli ego dei ricchi competono contro i corpi dei poveri. Le prove del parassitismo abbondano: ogni luogo destinato ai test nucleari, allo scarico dei rifiuti, alle miniere, ai pozzi petroliferi testimonia la distruzione della madre per gli scopi dei doni ridenominati "profitto" che lo scambio porta con sé.

Il nostro condividere è stato riportato a un passato mitologico (o beatitudine infantile) e ai sottoprodotti dell'attività del nostro ego, ed è diventato l'inconscio collettivo, dal momento che la co-scienza (conoscenza insieme) nella nostra società è basata sulle definizioni e sullo scambio. Forse il personaggio principale della mitologia greca per la perdita della madre non è Persefone, figlia di Demetra, ma Ade, il figlio di Gaia, che è diventato il dio dell'oltretomba.

La conoscenza del cuore

I nostri cuori pompano il sangue che porta l'ossigeno e il nutrimento necessari alle nostre cellule; poi, quando il sangue si esaurisce, ritorna al cuore per essere nutrito. Questo è un archetipo fisiologico che il paradigma dello scambio c'impedisce di seguire. Anche individualmente, il nostro subcosciente ci suggerisce informazioni sepolte, e le idee ci arrivano da un luogo sconosciuto, repentine, doni da una fonte ignota che chiamiamo i nostri Sé, la fantasia, Dio.

Gli umani sono sostanzialmente esseri amanti. Le nostre strutture sociali e la logica dello scambio sono distorsioni patriarcali dell'amore. Il condividere e il dare cure che viviamo nella relazione originaria madre-bambi-no sono spesso l'unica esperienza di amore gratuito che abbiamo, e diventano il nostro modello per tutta la vita. Per questo la prima infanzia è tanto importante nella nostra psicologia. Per il resto della vita, dobbiamo avere a che fare con le varie distorsioni e ostacoli dell'amore. La nostalgia dell'infanzia, come anche dell'utero, è il rimpianto del nostro primo periodo di salute che non è mai più tornato, perché non esiste nessuna struttura sociale o economica che lo permetta. La nostra indipendenza è tanto distorta che sminuiamo la dipendenza, invece di rispettarla. Insistiamo nel voler stare da soli, e invece siamo una massa di individui che si disperano perché vorrebbero essere toccati, nutriti, accarezzati, sostenuti.

La libera circolazione del sangue tra la madre e il bebè nell'utero è il naturale paradigma di una società sa-na. È il modello di una collaborazione che-dà-vita, quando entrambi i cuori pompano lo stesso sangue e il nutrimento viene condiviso. Come il vento che si sposta da una zona di pressione più alta a un'altra zona più bassa, una buona circolazione si muove da chi ha di più a chi ha di meno. Dopo la nascita e dopo aver cominciato a respirare l'aria di cui i suoi polmoni hanno bisogno, cominciando così a interagire con il mondo libero ester-no, il neonato riceve e percepisce, per quanto gli è possibile, l'ambiente abbondante e dona il suo nuovo essere umano alla contemplazione degli osservatori, dà il suo tocco ad altri corpi, rivelando chi è e chi sarà.

La circolazione dell'utero è cominciata a un nuovo livello: è partita dall'interno di un corpo per finire tra due corpi diversi, è diventata tra corpi. I cuori non pompano più lo stesso sangue ma pompano risa, linguaggio, gesti, movimenti verso il bisogno che è riconosciuto, un flusso di beni e di cure. Il neonato riceve creativamente, è una creatura interpersonale, un cuore interpersonale, un soggetto di attenzione, che dà anche attenzione. Il latte scorre al suo stomaco bisognoso attraverso la bocca che riceve in modo attivo. Il latte non gli viene negato. Non ci sono estorsioni, adescamenti, pagamenti. Anche se i segnali del bambino possono farci intuire i suoi bisogni, non si tratta di scambi ma di prodotti gratuiti che scaturiscono naturalmente dal suo intero essere.

Come la sinapsi, per la quale i nervi non trasmettono gli impulsi mediante un contatto diretto, ma attraverso processi lungo spazi diversi, la vita viene trasmessa gratuitamente in molte forme diverse dalla madre al bambino, dal bambino alla madre e ad altri che lo amano. La madre e il bambino sono contenti della gratuità del proprio dare. Nessuno dei due s'imbarazza per la relazione di dipendenza, che esige e permette la circolazione, così come nessuno s'imbarazza per la dipendenza dall'aria, che esige e permette di respirare. In questa relazione possiamo prendere ciò che viene dato gratuitamente e dare gratuitamente, provando gioia e toccandoci dall'esterno, sensazione che passa per e va verso un'altra sensazione, condividendo nello scorrere del tempo all'esterno dell'utero.

La nostra società s'imbarazza per la dipendenza e il bisogno di dare gratuito, ma in realtà farebbe qualsiasi cosa per averli. Quindi noi costruiamo barriere sempre più alte contro di essi, che includono una certa flessibilità, alcuni luoghi per scaricare la pressione che accumuliamo dentro di noi per non poter avere quello di cui abbiamo veramente bisogno. Continuiamo tuttavia a lavorare per avere o prendere per noi stessi più di quanto ci basterebbe, in modo che a noi sembri gratuito (solo a noi, non agli altri). Dal momento che accediamo sola-mente alla nostra esperienza di bebè con la madre, per scoprire poi che il mondo e le sue regole sono diversi, potremmo pensare che nessun altro abbia mai avuto, o abbia bisogno di avere, l'esperienza di cure gratuite.

Invece, la libera circolazione da chi può dare verso chi ha bisogno, la capacità di chiedere liberamente, di ricevere liberamente, di dare liberamente costituiscono il processo basilare, attraverso il quale il flusso della vita circola senza impedimenti. La consapevolezza delle diverse cose che vengono date e ricevute è condivisa così come sono condivisi la percezione o il linguaggio, liberamente in tutte le loro trasformazioni, nel passaggio dei doni da una persona all'altra, dalla natura alla gente e dalla gente alla natura. Questa è la nuova coscienza della natura, un'evoluzione, una nuova vita condivisa della vita.

Dare e ricevere la vita non si limita al concepimento, alla gravidanza o al partorire fisicamente i bambini, ma si compie in ogni atto di soddisfazione del bisogno. Lo scambio, ponendosi tra il dare e il ricevere, tra il dona-tore e il dono, tra il ricevente e il dono, ha ostruito la sinapsi e ci ha confuso. I processi sono distorti, non liberi (unfree). Non diamo più né riceviamo più vita in modo creativo e intelligente, ma basiamo le nostre interazioni sulla mascolazione. Recentemente è stato offerto un premio al primo uomo che rimanga incinto, ma dare e ricevere sono sfruttati e sminuiti ovunque al di fuori dell'utero.

Il nostro sogno comune

Proviamo a considerare che i giudizi sulla realtà e l'ir-realtà (e sull'essere svegli e sognare) dipendano dalla mi-sura in cui la modalità dello scambio e la relazione mascolata del concetto entrano in gioco. Il sogno esplora altre relazioni sincretiche, libera gli esemplari della loro investitura fallica e soddisfa i nostri bisogni di capire median-te il simbolismo, che non è uno-a-uno né uno-a-molti, bensì "determinato da fattori concomitanti", dove un'im-magine rappresenta un certo numero di questioni, unità o eventi diversi e in apparenza slegati tra loro. Complessi e sincretismi1di vario tipo permettono di fare associazioni che non faremmo mai secondo il nostro sistema di classificazione gerarchica (e sistema di classi sociali).

Nei sogni, le nostre immagini non sono costrette a seguire una linea direttrice, legandosi a esemplari o parole, fornendoci un aiuto concreto socialmente convalidato per gestire la nostra vita nel mondo di veglia "reale". Possono invece andare a ruota libera, soddisfacendo i nostri bisogni non appena ci arrivano alla mente, o alla memoria. Le immagini sono soggettive, possono seguire una linea di tipo "prima-io", ma senza l'egemonia dell'e-go mascolato. Nei sogni, i nostri bisogni vengono appagati secondo il principio del piacere, e non implicano una nostra attività volta a soddisfarli. I nostri bisogni reali sono simboleggiati, il nostro intuito è rivolto a essi; vie-ne dato un aiuto reale. Nei sogni, ci trattiamo come se vivessimo in un'economia del dono. La ragione per cui il sogno è soltanto soggettivo e basato su delle illusioni è che il mondo esterno è strutturato sullo scambio. I terapisti autoritari potrebbero non vedere di buon occhio questa modalità "infantile" e "regressiva", ma perché, poi, non vederla da un altro punto di vista, come utopistica e materna? Il sogno sembra essere la soddisfazione dei nostri bisogni co-muni-cativi su una base individuale. Se solo potessimo soddisfare i nostri bisogni co-muni-ca-tivi collettivamente potremmo vivere tutti i nostri sogni.

Al nostro risveglio, entra in gioco un giudizio sulla realtà e irrompe allo stesso tempo una strategia cognitiva uno-molti; così usiamo l'uno per sostenere l'altro. Ci meravigliamo della stupidità dei nostri sogni, screditiamo il nostro pensiero sincretico e convalidiamo il nostro pensiero uno-molti. Questo ci fa negare o dimenticare e dequalificare i nostri sogni in quanto inferiori al nostro stato di veglia, forse perché anche le nostre strategie per ricordare sono uno-molti. I bambini appartengono sincreticamente alla "categoria" dei sogni, in quanto sciocchi, non-razionali e non-fallici; anche le donne e i desideri vengono spesso relegati al mondo ultraterreno del sogno.

Sopravvalutando e investendo fallicamente il pensiero concettuale nella società intera e proiettandolo sulle strutture delle istituzioni, abbiamo creato collettivamente una realtà sociale diversa dai nostri sogni e inospitale per quel tipo di pensiero. Convalidando la "realtà" ogni volta al nostro risveglio, stiamo screditando il tipo di realtà di cui sono fatti i nostri sogni e le molte parti nonfalliche del nostro mondo di veglia. Perciò può accadere che, ogni volta che ci svegliamo, affermiamo inconsapevolmente il dominio, la misoginia, e l'odio verso i bambini, la natura e la pratica del dono, dicendo a noi stessi: "Quello non era reale; questo è reale".

Se non altro, i sogni soddisfano un bisogno condiviso da tutti: offrono un'alternativa, così come il comunismo lo ha fatto rispetto al capitalismo (e viceversa), comunicandoci che il mondo "reale" non è l'unico mondo possibile, e che il pensiero concettuale mascolato investito fallicamente non è l'unico tipo di pensiero possibile. Se il sogno funziona secondo i processi non mascolati del dono, esso è un cammino possibile verso un mondo migliore, come il linguaggio e la pratica materna. Il sogno comune dell'umanità è il volto di un mondo futuro. L'intimazione che dice all'umanità di "svegliarsi" è sbagliata. Dobbiamo piuttosto cambiare la re-altà per far sì che i nostri sogni si avverino2.

L'imposizione della re-altà

La lingua ci parla, e ci dice che l'inconscio collettivo ha visto qualcosa che noi abbiamo invece collettivamente ignorato. Io credo che nella lingua ci siano moltissime tracce delle questioni qui discusse: il concetto mascolato, lo scambio, le gerarchie e la pratica del dono. Le parole che stiamo menzioniando in questa pagina sono indizi lungo il cammino regale (royal) verso la scoperta della natura della "real-tà" (in spagnolo, real vuol dire "rega-le/reale"); e quegli indizi ci stanno suggerendo che non possiamo percorrere il cammino regale da soli. Dobbiamo avvicinarci al "soggetto" da una direzione diversa.

Perciò il regime del re (kingship) o il regno delle cose (thingship) – dal latino rex ("re") o res ("cosa") – ci sta parlando della base "uno-molti" della re-altà. Il gioco di parole esisteva già in latino. Esso indica gli schemi del dominio auto-similare nella nostra conoscenza del re-ale, al di fuori della grana donante. E anche l'ego in quanto "re" fa parte di ciò che definisce questa re-altà, coincidendo con essa nella struttura, mentre la pratica del do-no ne rimane al di fuori. La re-altà è un terreno comune, che deriva dalla pratica del dono, ma è dominata dal pensiero concettuale capitalista fallicamente-investito.

Basare il pensiero sul concetto sminuisce le differenze, oppure le rende importanti principalmente come segnali di un altro concetto:. "A quale concetto appartieni?" sembra essere la domanda reale. Mettiamo da parte i tuoi bisogni e il tuo essere particolarmente interessante e bella, la scintilla nei tuoi occhi, e ti chiediamo piuttosto se sei abbastanza simile al modello o esemplare per appartenere al concetto di "bella", al concetto di "amabile", o di "persona in carriera di successo" o "accademica".

L'affermazione della re-altà mascolata è forse il riconoscimento di un dato esterno, o l'imposizione di un dono che dobbiamo ricevere? Magari ci sentiamo obbligati, per il principio dello scambio, a "restituire" qualcosa alla re-altà; il ri-conoscimento forse? La re-altà soddisfa i nostri bisogni comuni distorti, ma potrebbe accantonare i nostri bisogni individuali salutari non realistici. A quali conseguenze porta non ricevere il presente? All'abbandono? Alla follia? E a quali porta invece riceverlo? Rinunciamo forse alle verità della nostra prospettiva soggettiva per la visione collettiva mascolata, così da non essere lasciati fuori dal concetto di umano e sano? Se rifiutiamo la re-altà siamo forse ingrati, egoisti, "indulgenti con noi stessi", come dice uno psichiatra a proposito dei malati mentali? Se diventiamo matti, forse stiamo solo spostando il nostro giudizio sulla realtà da una posizione mediata collettivamente a una posizione soggettiva. Lo facciamo perché siamo tutti dei "feriti ambulanti".

Una prospettiva collettiva egoista

Il giudizio collettivo sulla realtà è, dopotutto, un'at-tribuzione di valore collettiva che sarà probabilmente più funzionale a ognuno di noi di quanto non sarebbe un'attribuzione di valore puramente individuale. Quando insistiamo sull'empatia, o sul desiderio di un mondo migliore, e gli altri dicono che non siamo "realistici", stanno ricorrendo a un'attribuzione collettiva di qualità o di valore che assicura, almeno, un certo grado di funzionalità, di adattabilità per l'individuo e per il gruppo; dicono che per il nostro bene (interesse personale), dovremmo adattarci al giudizio collettivo, non cambiare niente né concepire alcunché di diverso.

Perché la visione collettiva sembra essere meno egoista? Esiste una separazione tra l'ego e la collettività, e ciò che non è collettivo sembra essere egoistico. Ma lo stesso ego è un prodotto collettivo, ed esistono molti meccanismi e valori collettivi che gli danno forza; e coincide poi con una sorta di orientamento generalizzato verso l'ego della collettività specifica cui appartiene, come la razza, la classe, la religione, la nazione.

L'ego dipende anche da un'attribuzione collettiva di valore e di realtà alla configurazione individuale interiore, che la convalida per ognuno di noi, ma soprattutto per gli uomini mascolati (di successo). Le strutture autosimilari nella società svolgono questa funzione. L'uno privilegiato, il processo dello scambio e la negazione del dare, le istituzioni basate sulla mascolazione, il denaro e il concetto investito fallicamente, sono tutti meccanismi sociali attraverso i quali viene attribuito valore collettivamente all'ego individuale.

L'ego e l'egoismo possono essere visti come una posizione collettiva, mentre la posizione soggettiva può esse-re di fatto più donante e orientata verso l'altro. Collettivamente possiamo essere molto egoisti; ma collettivamente possiamo anche collocare la linea di divisione in qualche altro punto tra l'individuale e il collettivo, e convalidare un diverso tipo di ego e un diverso tipo di dare, creando un diverso tipo di collettività. Per poter vedere che la divisione è nel punto sbagliato, forse abbiamo bisogno di una prospettiva tridimensionale. Se ci rendessimo conto che ciò che pensiamo di essere è fatto attraverso un dono sociale come il linguaggio come anche attraverso i doni della vita, forse smetteremmo di concepire un'opposizione polare tra l'individuale e il collettivo, l'E-go e l'altro. Questa riformulazione permetterebbe di dividere diversamente il soggettivo dall'oggettivo, l'incon-scio dal conscio, i sogni dalla realtà.

La realtà si afferma e si definisce a partire dall'impo-sizione della modalità mascolata sulla collettività. La comunità distorta è costruita per mettere in atto questa imposizione, e la sua definizione di "reale" fa parte della costruzione. Il giudizio sulla realtà è un meta-messaggio che serve a mantenere lo status quo patriarcale. Così la realtà sembra essere organizzata squallidamente, basata sulla crudeltà della "natura umana"; qualsiasi cosa ci va bene, perché crediamo nella meta-affermazione "la gen-te è così e basta".

L'individuo dà il valore della realtà ad alcuni episodi della propria esperienza, creando un'attribuzione in di-venire con un costante dono d'impegno e di energia. Ma questa stessa realtà sembra non essere donatrice né includere il paradigma del dono; la pratica del dono nel mondo esterno viene continuamente male interpretata, e la modalità del dono interna non viene vista né riconosciuta in quanto tale. Talvolta, quando non siamo oppressi dalla scarsità e dall'eccessivo lavoro, possiamo vivere l'aspetto donante della natura e degli altri, ma per molta gente, questi momenti di felicità non sono frequenti.

Tutto questo fa sì che la nostra modalità del dare interna non abbia una corrispondenza nella realtà, anche se forse i nostri sforzi di farci dare dagli altri possono considerarsi tentativi sbagliati di fare in modo che la "realtà" rifletta il nostro donatore interno (forse il nostro donatore interno ci appare riflesso come un "altro"). Sembra giusto o armonioso che gli altri diano a noi. Visto che abbiamo convalidato lo scambio e messo in un'altra categoria la madre, sembra giusto o armonioso che gli altri diano a noi.

Se guardiamo con occhi compassionevoli agli sfruttatori, possiamo notare come questi siano convinti della realtà e forse della permanenza della scarsità, e che sentono di doverla sfidare, superare individualmente, prendendo, ossia facendosi dare dagli altri. Il loro parassitismo è in pratica un tentativo, nell'ambito della scarsità creata dal loro stesso sistema, di far sì che la natura nutra almeno loro, se non può nutrire nessun altro; forse èun tentativo di rendere loro madre la realtà. È forse questa la ragione segreta dell'avidità? Lo sfruttatore è forse un bambino che succhia da solo dalla reali-tettà?

Quando credono di meritare più degli altri perché hanno prodotto di più o perché sono più forti o più intelligenti, gli sfruttatori partecipano alla modalità dello scambio e cancellano il dono, che è, paradossalmente, ciò che stavano cercando. Nessuno può trasformare la realtà nella propria madre, a meno che non restauriamo per tutti il paradigma del dono per tutti. La realtà è una costruzione collettiva, e se collettivamente costruiamo la realtà per nutrire/dare cure solo a una persona o a poche persone a spese dei molti, distruggiamo i molti, che sono la collettività. Dobbiamo far sì che il nostro donatore interno corrisponda alla pratica del dono reale all'esterno; questo libererà sia l'individuo sia la collettività. Nel frattempo, restaurare il nostro contatto con la natura può aiutarci a trovare una nicchia ecologica all'esterno per il nostro donatore interno. La natura ha bisogno che ci si prenda cu-ra di lei, di essere restituita a se stessa come libera dona-trice; in questo modo possiamo essere in linea con lei.

Lo scambio, in realtà, significa rimuovere quella che sa-rebbe la soluzione al nostro problema: il dare sia interno che esterno. Lo scambio esige che l'"altro" assuma la motivazione orientata verso l'Ego che viene interpretata da ogni scambiatore. Tutti noi diamo, ma per qualcosa che sta al di là del presente, qualcosa di diverso dalla soddisfazione dei bisogni dell'altro. L'aspetto o natura o realtà donanti dell'"altro" vengono male interpretate e tradotte in "giusta" o "equilibrata" corrispondenza tra dare di più e prendere di più. Così la realtà sembra non dare gratuitamente, ma solo rispondere a uno scambio. E visto che la pratica del dono non è modellata sulla realtà, noi riflettiamo l'equazione distorta. La soluzione è il dare collettivo, l'altruismo collettivo; il denaro, come prodotto collettivo, può essere usato per dare inizio a questo processo.

I sogni si avverano all'interno e all'esterno

Forse, se il sognare è nella modalità del dono, Spider Woman (la Donna-ragno degli indigeni) sogna veramente il mondo, come dice Paula Gunn Allen. Ma la re-altà mascolata è un incubo collettivo, un dono collettivo per mettere fine a tutti i doni, che taglia fuori la pratica del dono assimilandola allo scambio; moltissime persone danno inconsapevolmente la loro energia alla realtà mascolata. Dobbiamo sognare collettivamente qualcos'al-tro, e dare la nostra energia delle ore di veglia per creare una realtà diversa, facendo avverare i nostri sogni di un mondo migliore invece che i nostri incubi. Se ci fosse maggiormente presente la pratica del dono nella realtà, verrebbero dati più poteri al nostro donatore interno, alla nostra creatività e al nostro amore.

La creazione artistica è in la realtà, pratica del dono ed è un ponte verso un mondo migliore perché il mezzo o il veicolo del dono è a sua volta un dono gratuito, che soddisfa e crea i bisogni estetici. Ad esempio, il canto è gratuito per l'ascoltatore, e il veicolo, la voce, soddisfa un bisogno, un nostro potenziale per godere di armonie, suoni, ritmi, belli e gradevoli; le parole soddisfano invece i bisogni comunicativi. Nel caso dell'arte visiva avviene una co-sa simile: i colori, le forme, e le composizioni possono produrre sensazioni piacevoli, qualunque sia il soggetto o il tema centrale dell'opera. Anche se molti tipi di arte possono essere comprati e venduti, hanno tutti un aspetto in comune: la soddisfazione gratuita dei bisogni, che è, essenzialmente, il loro canale co-municativo. Non c'è scam-bio tra l'orecchio e la musica, tra l'occhio e il dipinto, anche se l'accesso a queste esperienze è spesso costoso. L'o-pera d'arte in sé dà. Il dono creativo dell'artista è la capacità di creare qualcosa che dia (abbiamo detto prima, in contrasto con l'antropologo Lévi-Strauss, che le donne non dovrebbero essere interpretate come merci o come messaggi scambiati tra diversi gruppi di parentela, ma come fonti di doni, doni-che-danno). Diverse attività basate sullo scambio diventano parassitiche rispetto all'arte, come anche rispetto ad altre fonti della pratica del dono.

Anche se l'arte ristabilisce in una certa misura la pratica del dono nel mondo esterno, non è sufficiente per avvalorare il modello cancellato. Per il momento, la pratica del dono sta nei sogni e nel subconscio, e non viene riconosciuta in quanto tale nell'arte, nei racconti, nei miti. I racconti possono avviare dolcemente i bambini allo scam-bio attraverso la comunicazione, soddisfacendo questo loro bisogno. Mostrano loro la transitività di una cosa che conduce a un'altra, la soddisfazione di un bisogno che permette la soddisfazione di un altro bisogno, un'azione che ha come risultato qualcos'altro. L'azione può essere interpretata come un dare; e soddisfare un bisogno, quindi, ne crea un altro: dopo aver mangiato, un bambino ha bisogno di dormire, o di uscire a giocare; la madre ha bisogno di riordinare, di riposare, di tornare al lavoro.

La struttura se-allora, tuttavia, s'impadronisce del dono con una conseguenza: se metti la mano sul fuoco, ti brucerà. Quando s'introduce una struttura di ricompensa sociale e punizione, la transitività del dono si trasforma in consequenzialità logica dello scambio. Se/allo-ra diventa "fai questo, prendi quest'altro"; e così può sembrare che quando il bambino fa qualcosa, ciò che la realtà gli "restituisce" è ciò che lui "merita". Cenerentola meritava di andare al ballo e di sposare il principe perché lavorava tantissimo? Cappuccetto Rosso meritava di essere mangiata dal lupo per aver disubbidito alla madre? Questi racconti sono esplorazioni nello scambio tra la "realtà" e i protagonisti della storia, per i bambini che cominciano appena a considerare il loro comportamento secondo la modalità dello scambio.

Qual è il prezzo che paghiamo per non aver dato, quali le ricompense che otteniamo per aver dato? Questi scambi sono tutti retti da un equilibrio, almeno nelle fa-vole. Non appena i bambini cominciano a imparare come scambiare, la loro moralità cor-risponde. Fare obbedire i figli, istituendo un sistema di ricompensa e punizione, li allontana dalla modalità del dono a cui stavano partecipando con le loro madri e li prepara alla modalità dello scambio, dilagante nella cosiddetta "realtà". I racconti soddisfano il bisogno dei bambini di essere introdotti mediante una comunicazione dolce in un mondo reso alieno dallo scambio.

È vero: abbiamo bisogno, come i bambini, che ci venga insegnato come adattarci alla realtà; ma questo perché la realtà è distorta. Il bisogno di adattarsi viene imposto da un ambiente alterato artificialmente e pervasivamente dal paradigma dello scambio. La socializzazione impone un'evoluzione verso la funzionalità nel sistema, e un adattamento ai ruoli dell'avere o non-avere a tutti i diversi livelli. Se il nostro funzionamento seguisse il paradigma rivolto allo sviluppo umano e planetario, non avremmo bisogno che qualcuno c'insegnasse il dare e ricevere dall'esterno, ma lo apprenderemmo dalle nostre esperienze, così come impariamo a dare un senso al-le nostre percezioni, a gestire le attività del nostro corpo e, almeno in gran parte, a parlare.

Insegnare ai bambini come obbedire impone loro lo schema di dominio-sottomissione, che racchiude i meccanismi di ricompensa e punizione dello scambio, con avvertimenti del tipo: "Se metti la mano sul fuoco, ti brucerai". Questa frase è puramente informativa, ma viene usata a sostegno della dittatura parentale, come: "Se non dici ‘sì mamma' non puoi uscire a giocare". Questi dettami funzionano secondo la modalità dello scambio, dando un valore alle nostre azioni in termini di conseguenze: "Hai disobbedito: sei in punizione per tre giorni". L'autoritarismo del genitore è, spesso, non sol-tanto una riproduzione della propria infanzia e della relazione con i genitori, ma un'attitudine di oppressione contro il proprio "figlio interno" donante e ricevente. Le nostre scuole, con la loro pratica di classificazione, riducono il processo di ricompensa e punizione a totali di "conoscenza" acquisita valutabili quantitativamente.

Gli irochesi e l'uomo bianco

Quando le donne sostengono le donne, o le nutrici nutrono le nutrici, c'è una transitività della pratica del dono, così che il bene viene trasmesso e ritrasmesso e il rice-vente riceve dai molti e dà a essi. Se questo diventasse un principio, la gente ne diventerebbe cosciente e la realtà sarebbe costituita da più azioni determinate in questo modo. Se il paradigma del dono venisse convalidato e praticato consapevolmente, tuttavia, non avremmo bisogno di concepirlo come un principio; potremmo essere più flessibili, sperimentare e agire secondo il caso. Forse, se lo trovassimo utile, in alcuni casi potremmo persino praticare tranquillamente lo scambio, perché il contesto stesso sarebbe comunque portatore della pratica del do-no. Le tribù di americani nativi in cui le donne hanno il ruolo dominante, come gli irochesi, hanno creato una realtà di pratica del dono alternativa di questo tipo. Il contesto implicava i valori del dono seppure in una certa misura venisse praticato anche lo scambio – almeno lo scambio simbolico –, e talvolta si combattessero guerre.

I valori dell'economia del dono minacciano chi pratica l'economia dello scambio, e io credo che questa sia una delle ragioni della ferocia dell'uomo bianco contro le popolazioni native. Anche l'uomo bianco aveva una madre; imparò a ucciderla nel massacro delle streghe. Non poté farlo però senza uccidere anche se stesso, la propria madre interna. Il genere non esiste; gli umani si formano tutti secondo la pratica del dono. Uccidendo e riducendo in schiavitù la propria madre europea, l'uomo bianco si è privato del modello del proprio potenziale umano. Lasciando la terra madre e penetrando nelle Americhe, l'Uomo Bianco ha portato la propria umanità a compiere il falso programma di conquista mascolato. Al suo arrivo, ha trovato delle società fondate sulla pratica materna, le ha sfruttate e ha perpetrato un genocidio. Ciò che lui considerava civilizzato erano l'Ego e lo scambio, con la loro logica vuota derivata dalla definizione.

Tuttavia l'Uomo Bianco ha un cuore. Ha vissuto nel-l'utero della madre, è stato da essa nutrito, ha ricevuto i suoi doni e le ha dato i propri. Ciò che non ha capito è che tutti gli uomini e le donne condividono lo stesso sogno, lo stesso modo di sognare e lo stesso modo di parlare. Noi abbiamo già un linguaggio comune. Il linguaggio non è solo co-municazione di doni materiali, anche se quest'aspetto è importante; è anche comunicazione di doni verbali. Ciò che conta non sono i suoni-dono specifici, ma il fatto che noi li diamo l'uno all'altro. La torre di Babele non è altro che il simbolo fallico della mascolazione, che non ci lascia vedere che tutti i nostri linguaggi e le nostre vite provengono dalla Madre e dalla Pratica Materna. Se abbandonassimo la mascolazione e facessimo ritorno alla madre e al figlio che sono dentro ognuno di noi, potremmo restaurare il sogno.

Dalla re-altà alla dea Rea-ltà

Il dare e lo scambio sono profondamente intrecciati tra loro al livello della re-altà economica, e questo pone diversi ostacoli sul cammino di un'efficace attività di cambiamento sociale orientata alla pratica del dono. Inoltre, l'obiettivo del cambiamento sociale spesso s'identifica erroneamente con l'integrazione di ognuno di noi all'econo-mia dello scambio. È un falso obiettivo perché ignora il fatto che, perché il mercato funzioni, da qualche parte devono arrivare i doni gratuiti diretti a esso.

Molti gruppi sono esclusi dal sistema di mercato capitalistico, e i loro prodotti non hanno accesso al mercato o non possono competere al suo interno. Il lavoro artigianale delle popolazioni indigene, ad esempio, seppure della migliore qualità, generalmente non ha accesso al mercato, tranne che attraverso intermediari sfruttatori.

Di recente, gente di buone intenzioni ha avviato progetti di aiuto agli artigiani per inserire i loro prodotti sul mercato, attraverso finanziamenti a fondazioni o ad altre entità. Il problema è che le loro opere devono essere equivalenti agli altri pezzi dominanti sul mercato: ??? (dev'essere uno "scambio equo").

La contraddizione è che l'obiettivo è individuato nel-l'assimilazione di questi gruppi alla stessa economia che li ha esclusi e sfruttati, e che continua a escludere e a sfruttarne degli altri, appropriandosi di grandi quantità di lavoro-dono nascosto. Solo pochi di essi possono diventare "uguali" ai pochi dominanti sul mercato che so-no "uguali" tra loro, e la cui "uguaglianza" è possibile grazie ai doni nascosti di altri. Il dono dei finanziamenti a questi progetti prende il posto del lavoro-dono nascosto per un certo periodo, ma generalmente l'"autosuffi-cienza" all'interno dell'economia capitalista è un'illusio-ne, perché il capitalismo ha bisogno dei doni nascosti per poter funzionare. L'"autosufficienza" spesso non è altro che dipendenza dal mercato capitalista, ed è così per le donne che accedono al mercato del lavoro per es-sere "autosufficienti".

La produzione di ornamenti di perline degli americani nativi sul mercato di Hong Kong è un esempio cal-zante. Lo sfruttamento internazionale produce a costi minori, con più competitività, e prodotti "più equi" che la giustizia sociale o i progetti di autosufficienza. Grazie a esso, nelle relazioni di sfruttamento tra le nazioni di-venta disponibile il fattore del quoziente-dono (che produce la differenza tra i livelli di vita), insieme al "dono" del lavoro dei lavoratori sfruttato nelle imprese individuali straniere. L'illusione è che i gruppi "esterni" al flusso dominante possano avere successo se soltanto i loro prodotti fossero abbastanza buoni per essere competitivi. Si ignora che, perché questi prodotti siano "abbastanza buoni", uguali o anche solo appartenenti allo stesso "settore", è necessario aggiungere una quantità relativamente grande di doni nascosti.

Forse producendo un nuovo prodotto o monopolizzando il mercato, chi sta al di fuori dell'economia capitalista può accedervi e avere successo al suo interno, dando giovamento alla propria comunità. Ma per questo è necessario conoscere il mercato; e ciò è possibile solo con l'educazione e l'esperienza nel mercato stesso, che porta, di solito, a cercare di avere successo per il proprio profitto, non per la comunità, secondo i valori capitalistici di "ognuno per sé". Anche il tentativo di accedere al mercato, di produrre prodotti uguali o competitivi, convalida il mercato stesso e lo "scambio equo" come il sistema migliore (o addirittura l'unico sistema) per avere abbondanza. Ogni alternativa viene considerata poco pratica o inesistente. L'economia del dono, nascosta e integrata nell'economia dello scambio come lavoro sfruttato, viene sacrificata; non le viene dato nessun va-lore; resta invisibile o viene screditata e disprezzata.

A un livello psicologico individuale, il subconscio non è visibile, ma serve come fonte di energia per le nostre menti coscienti. Molte motivazioni e associazioni inconsce non arrivano mai in superficie e vengono screditate. Nello stesso modo, la gente esterna al mercato sostiene chi sta all'interno; e analogamente, le donne sostengono gli uomini nelle loro relazioni "eque" con altri uomini e nella loro competizione volta al dominio, senza riconoscere l'impegno che esse e altre donne hanno intrapreso per nutrirli/dare loro cure. Noi dobbiamo smettere perciò di dare valore al tipo di coscienza basata sullo scambio e sulla mutua esclusione, all'uguaglianza sul mercato, al rendere "competitivi" i nostri prodotti, o noi stesse o i nostri figli, e sperimentare delle alternative che siano totalmente diverse.

Quand'anche sembri difficile creare progetti di pratica del dono nella realtà presente, io credo ci siano in realtà molti modi possibili, che non vengono però riconosciuti come tali. Molte donne che conosco personal-mente forniscono dei servizi gratuiti: aiuti domestici, formazione e sostegno alle altre donne, spesso credendo di essere "matte" perché non vogliono essere pagate. Si stanno facendo diversi esperimenti di consorzi fondiari costituiti da donne, movimenti per l'autosufficienza e per un vivere più leggero sulla terra.

I movimenti contro la violenza domestica e sessuale hanno a che vedere con la soddisfazione gratuita dei bisogni, così come i movimenti contro la dipendenza dalle droghe. Chi è in questi movimenti, come anche chi è attivo contro il razzismo e per la liberazione dei popoli, contro la distruzione del pianeta, contro i giochi puer-ili che si fanno con i rifiuti radioattivi e le bombe chimiche a orologeria, contro la guerra, contro il militarismo e la spesa militare, tutte queste persone stanno dedicando moltissimo tempo ed energia per soddisfare importanti bisogni generali di cambiamento sociale.

Gran parte del lavoro volontario viene svolto dalle donne, ma molto anche dagli uomini. Chi è coinvolto in tali attività miste non si rende conto del fatto che, nello svolgere questo lavoro non monetizzato di soddisfazione dei bisogni, sia gli uomini sia le donne stanno seguendo il paradigma del dono basato sulla pratica materna. Perciò la leadership delle donne che credono nei valori del dare non viene considerata uno standard; e le donne, però, appoggiano spesso gli uomini che seguono il programma mascolato anche nelle attività che hanno come obiettivo il cambiamento sociale. In molti casi, di fatto, il programma mascolato non viene neanche riconosciuto come problematico.

La pratica del dono ha spesso acquisito una brutta fama, e la gente è stata dissuasa dal seguirla, perché le organizzazioni di beneficenza patriarcali hanno imposto i propri doni sui riceventi, considerandoli passivi e inferiori, senza curarsi della valutazione dei loro bisogni. Anche in questo caso, le donne e gli uomini hanno abbracciato il paternalismo a detrimento di ogni persona coinvolta, offuscando il legame tra le donne e il paradigma del dono senza riconoscere la differenza tra la pratica del dono e lo scambio. Queste organizzazioni, infatti, hanno spesso usato la pratica del dono come un pretesto per dominare e accumulare profitto in vari modi.

Ho ripensato a un vecchio detto: – "È meglio non dare pesce ai poveri ma insegnare loro a pescare" con un risvolto che punta al cambiamento sociale. Dobbiamo chiederci prima di tutto come è stata creata la scarsità. Perché la gente non ha avuto accesso al lago per imparare a pescare? Il lago era forse proprietà privata oera controllato da una corporazione o dal governo? È forse mai possibile che un gruppo di persone affamate potesse vivere vicino a un lago, avendovi accesso, senza imparare a pescare?

Dobbiamo riuscire a modificare le cause della povertà, e una delle cause principali è il sistema basato sul-lo scambio. Creare progetti per far accedere la gente al mercato non modificherà le cause. Dobbiamo creare un cambiamento nella coscienza, che ci permetta d'indivi-duare le cause sistemiche e di puntare a cambiarle.

È importante creare delle alternative al capitalismo patriarcale, degli esperimenti basati sul tipo di organizzazione delle diverse economie dei cosiddetti "popoli primitivi", esterni al sistema del mercato. Io propongo di finanziare o altrimenti promuovere dei progetti alternativi, come dei doni locali non monetizzati, o dei circoli di condivisione, o dei progetti per restituire le terre fertili a chi ne è stato espropriato, perché possano viverci e coltivarle (molte donne hanno già cominciato a comprare e a condividere le terre con altre donne). Questi progetti devono essere resi possibili mediante il dare doni monetari, il finanziamento, che è in sé un sistema economico diver-so. Anche se il finanziare può sembrare parassitico nei confronti del capitalismo, sarebbe quindi un parassita sul parassita; avrebbe perciò una meta-visione (parasight) e potrebbe mettere in pratica un sistema diverso.

Finanziare in questo modo le economie del dono, anche se in modo sperimentale, ha una conferma sul metalivello. È donare per donare. Affermando l'esistenza di alternative, possiamo affermare il valore della differenza e disinvestire dall'uguaglianza capitalistica. Dall'interno delle classi che sono privilegiate per il dominio del segno dell'uguaglianza (=), le donne possono almeno ascoltare l'appello echeggiante del primo comandamento della Ragione Altruistica: "Proviamo qualcosa di di-verso. Questo non funziona!".

Mater-Madre

Materia(matter)-spirito, madre(mater)-anima sono probabilmente delle false opposizioni. L'illusione è che la mater non conti perché sta attribuendo importanza all'al-tro e non sta prendendo credito per sé, ma questo in realtà vuol dire che essa conta di più. Dobbiamo invece fare in modo che la mater conti. La pressione atmosferica sposta l'aria, e nello sviluppare il bisogno di aria, espandendo i nostri polmoni, essa viene inspirata, soddisfa il bisogno. Le cose della natura soddisfano i bisogni: dalla clorofilla nella foglia che fornisce zuccheri alla radice, al plancton sulla superficie del mare, dove le balene si nutrono, ciondolano e si riposano; dalle antiche rocce con le quali costruiamo le nostre case, ai torni dei vasai.

Questo perché i bisogni, anch'essi parte della natura, sono creativi. Le creature, compresi gli umani, si adattano a ciò che viene loro dato, oltre a modificarlo. La ma-ter(ia) è già ragione: parti di essa si occupano l'una del-l'altra, i bisogni sorgono e vengono soddisfatti. Ma la mente umana si è auto-interpretata secondo il paradigma dello scambio e si è perciò staccata dalla propria ma-trice, riflettendosi su se stessa. Nel lasciare che i donatori – le donne, la madre e la figlia che è in noi, i molti – si prendano cura di lei, la mente non si sta occupando di loro. Impegnata nel proprio orientamento verso l'Ego, essa cerca filosoficamente d'inseguire ciò che sta facendo da sola.

Forse la mente (e il cervello) possono essere meglio compresi se si considerano dal punto di vista del paradigma del dono. Se riportiamo la mater alla materia, possiamo capire quanto essa conti (how she minds), quanto la pratica materna sia ragione (how mind is mothering), e perché adesso dobbiamo soddisfare il nostro bisogno, dell'umanità e della terra, di riconoscere la mater come un dato. Lo spirito difficilmente conta (matters) nel riflesso; viene soffiato sullo specchio, una cosa che appartiene a un concetto diverso. Ma in realtà, la madre e il vento seguono principi simili: vanno dove c'è una mancanza, un vuoto, il bisogno di loro; e portano con sé le parole che abbiamo bisogno di ascoltare per riformare le nostre comunità.

La Madre Nutrice

Vado a fare una passeggiata in campagna: ci sono così tante creature, insetti, piante, fiori di campo, così specifici e diversi l'uno dall'altro per il luogo e il modo in cui crescono. In ogni metro quadrato di terra c'è una varietà, una danza lenta, selvatica e magnificente di vita animale e vegetale. Ogni tipo è in rapporto a una parola quale suo nome, ma in rea-ltà nessuno è assolutamente uguale a un altro. Adesso la combinazione di concetto, definizione e scambio ha prodotto un ambiente in cui le cose sono in realtà identiche tra loro. Non raccogliamo più le bacche dai cespugli; prendiamo identiche confezioni di frutta al supermercato.

La dea non è stata completamente distrutta: preparare, cuocere e mangiare il cibo che cuciniamo; sentire, stare in movimento, provare una gioia profonda in diversi modi, dal sesso alla poesia, alla contemplazione di una tempesta, sono ancora maniere di abbracciare i suoi doni. Ma costringere la natura a dare ha a che fare con la violenza maschile: scavare, trivellare, bombardare. Se obblighiamo qualcuno a dare, saremo sicuri che lo farà, e questa sicurezza dà forse il conforto necessario all'Ego artificiale dello scambio.

Dovremmo considerare la Rea-ltà come Madre Natura, Madre Nutrice. Si sta facendo con lei la stessa cosa che è stata fatta con noi: esaurirla così da costringerla a dare, per dimostrare che gli uomini lo fanno nel modo giusto o nell'unico modo possibile, che hanno il controllo della Rea-ltà e della re-altà. E questo avviene per non dare nutrimento/cure alla natura né attribuire valore al dare. Cancellare la madre fa apparire come processi basilari della vita, la meccanica causa-effetto, se-allora, i metodi oggettivi dello scambio. Si nasconde così un'intera gamma di intenzionalità nutrici, dalle meno "umane", come il vento o la possibilità che un'ameba trovi per caso un boccone prelibato, alle più "umane", una rivoluzione femminista o una ninna-nanna. In principio, ontogeneticamente e filogeneticamente, le madri nutrono i loro bambini.

L'Emozione

Nell'attività di mantenimento del mondo si continua ad attribuire valore materialmente seppure "servilmente". Nonostante la monetizzazione e lo scambio, i bisogni continuano a essere riconosciuti dalle donne (e da alcuni uomini) sia emozionalmente sia intellettualmente. Io credo, in effetti, che alla base della vita emotiva umana ci sia la connessione umana tra i bisogni degli altri e i nostri. Gli Ego mascolati, immersi nello scambio, sono notoriamente (e infelicemente) slegati dai bisogni, "insensibili". L'attenzione ai bisogni sembra essere irrazionale, perché ciò che consideriamo razionale si basa sullo scambio. Dal momento in cui abbiamo permesso che lo scambio pervadesse il nostro mondo, escludendo il dare, abbiamo sdegnato tutti i nostri valori, rendendoli più astratti di come sarebbero stati se si fossero basati sul dare. Così il valore stesso è stato lasciato all'astrazione.

Le emozioni continuano a volteggiare intorno ai bisogni insoddisfatti, attirando l'attenzione su di essi, dan-do loro valore perché possano essere soddisfatti, ma queste emozioni vengono spesso ignorate, screditate, dequalificate o altrimenti soppiantate dalla logica dell'e-goismo. Dare valore al ragionamento astratto allontana la nostra attenzione dai bisogni. Anche se talvolta il ragionamento astratto potrebbe essere utile per capire come soddisfare dei bisogni complessi, esso può divenire un fine in sé e una scusa per trascurare i bisogni e le emozioni che ci conducono a essi, per sempre.

Il patriarcato ha re(x)ificato la re-altà. Ha esteso la propria rete di immagini auto-similari – i concetti investiti fallicamente –, appropriandosi dei doni della collettività, come una rete di solidarietà maschile di uomini d'affari alla conquista di nuovi mercati. Soffocare questi concetti nella "realtà" porta a sminuire il suo aspetto di nutrimento/cure, rende invisibili i bisogni, scredita le emozioni che rispondono ai bisogni, e la realtà diventa meccanica e oggettivata. Ciò che viene dato per scontato, si ritiene importante solo perché è stato organizzato in concetti, reso relativo agli uni privilegiati. Ci troviamo tuttavia ancora nell'ambito del ricevere, anche se non lo riconosciamo. La realtà è sempre nutrice/curante, anche se i concetti astratti lo nascondono e c'ingannano. La rete dei concetti, il sistema auto-similare, sono un intreccio invisibile, condiviso astrattamente, che allontana la nostra attenzione dai doni reali della dea Rea e la convo


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