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Capitolo quarto

Le definizioni e lo scambio


La denominazione e la definizione, che ne é la sua forma piû complessa, costituiscono momenti speciali del linguaggio in cui le parole stesse vengono donate per soddisfare i bisogni meta-linguistici (i bisogni che riguardano il linguaggio stesso) di coloro che le ascoltano. Comunicando agli altri i nomi delle cose, o dando le definizioni delle parole, diamo loro i mezzi di produzione della co-municazione linguistica. La situazione é diversa dal discorso vero e proprio, poiché la denominazione e la definizione sono, almeno in parte, de-contestualizzate e i loro processi interni sono di tipo speciale. Usciamo momentaneamente dal flusso del discorso per porci su un meta-livello, cosí da fornire a chi ascolta qualcosa che ancora non ha, un "nuovo" termine che soddisfa un bisogno comunicativo costante e generale1.

Al contrario, il bisogno che viene soddisfatto attraverso il fluire del discorso é un bisogno di relazione presente e contingente con qualcosa, soddisfatto nel momento in cui chi parla dà un prodotto verbale a chi ascolta combinando le parole (ognuna delle quali, presa in sé, fornirebbe una relazione costante) in frasi. Nel discorso, chi ascolta potrebbe in teoria comporre da sé le frasi di chi parla, ma non ha riconosciuto (in quel caso) il bisogno di farlo. Nel caso della denominazione e della definizione, invece, chi ascolta sente un bisogno poiché non ha ancora e non puó ancora utilizzare le parole adatte. Il suo bisogno é simile a quello materiale dei mezzi di produzione e in questo caso é un bisogno di mezzi di produzione dei doni verbali.

Nei processi di denominazione e definizione, chi parla svolge un servizio per chi ascolta: avendo capito ció che la persona che ascolta ha bisogno di sapere, le fornisce una parola trovando il modo piû adatto perché possa apprenderla. Se sta parlando a un bambino/a o a uno straniero, potrebbe pronunciare la parola nello stesso momento in cui la "cosa" é lí presente, quale dato empirico; potrebbe indicarla, prenderla, tenderla verso l'altra persona ecc., oppure, se ritiene che la persona che ascolta abbia già una conoscenza adeguata del vocabolario della sua lingua, puó ideare una frase definitoria2 utilizzando termini che immagina già noti a chi ascolta.

In quest'ultimo caso, ci si deve immedesimare nell'altra persona, pensare al suo grado di conoscenza, "leggere nel pensiero" il vocabolario e l'esperienza di vita dell'altra persona. La definizione esige dunque un orientamento verso l'altro da parte della persona che parla; questa sarà in grado di arrivare alla sua deduzione dopo aver sentito le parole utilizzate dall'altro mentre parlavano insieme e l'ascoltava. Anche per definire qualcosa rivolgendosi al pubblico in generale, chi parla o scrive deve utilizzare i termini che ritiene noti a coloro cui si rivolge. Se una definizione scritta non é chiara, chi legge dovrà reperire ulteriori conoscenze linguistiche da altre fonti, ad esempio un dizionario. Ma anche in questo caso, le definizioni di un dizionario apparentemente impersonali esigono da chi le formula l'utilizzazione di termini comprensibili agli altri. Le definizioni non stanno in piedi da sole, come i filosofi (influenzati da equazioni e dallo scambio) sembrano pensare: sono doni di parole provenienti da una persona e diretti a un'altra o a molte altre.

Il definiens é una frase che fa parte della definizione e funziona da dono sostitutivo provvisorio della cosa definita, rendendo possibile esprimere la relazione sociale generale della cosa con il suo nome. Il nome é una parola- dono sociale costante, che soddisfa il bisogno comunicativo generale rivolto a quel tipo di cosa specifica all'interno della società nel suo insieme. La persona che parla fornisce un dono verbale provvisorio personale, lo sostituisce per la cosa data e per la parola-dono costante sociale (il nome) e lo presenta a chi ascolta. "Un animale peloso e amichevole come quello di zia Maria" e "felino domestico" sono entrambi doni provvisori che potrebbero essere dati a chi ascolta per definire la parola "gatto". La scelta tra uno dei due o tra altre varianti, dipende dal vocabolario e dall'esperienza della persona a cui ci si rivolge (e dal suo bisogno comunicativo), dedotte dalla persona che parla. Il definiendum viene fornito come dono comunicativo sostitutivo sociale e costante (il nome) per quel tipo di cosa e puó sostituire molti altri definiens che riguardono quel tipo di cosa (v. Fig. 3).

Ció implica: il definiendum puó fare ció che il definiens ha fatto rispetto alla cosa e anche di piû. Nei nostri due

Figura 3. Doni che prendono il posto di altri doni nella definizione.



esempi, "un animale peloso e amichevole come quello di zia Maria" prende un gatto "esemplare", mentre "felino domestico" colloca l'animale in una tassonomia, che esige un sistema di correlazioni complesso di definiens e definienda per distinguere tra diverse categorie affini. "Gatto", il definiendum, é piû generale di qualunque altro definiens (qualsiasi frase definitoria) e prende il posto di tutte le frasi definitorie possibili in quanto é il nome di quel tipo specifico di cosa per i parlanti di quella lingua.

Fornendo un nome mediante il processo di sostituzione del definiendum al posto del definiens, la persona che parla sta a sua volta anche trasmettendo il dono: una parola che ha ricevuto da altre persone. Questo processo gratuito del donare, ricevere e trasmettere crea le soggettività umane in relazione al linguaggio, al rapporto delle persone fra loro e riguardanti una immensa varietà di cose, eventi e idee qualitativamente differenti. In questa relazione mediata linguisticamente, noi umani scopriamo di essere una specie che si costituisce da sé, capace di legarsi insieme in tantissimi modi possibili, tanti quante sono le esperienze possibili. E utilizziamo i processi del dono e i doni verbali per stabilire legami tra una persona e l'altra, anche a un nuovo livello appena creato di organizzazione delle esperienze, il livello degli argomenti condivisibili che ci vengono dati linguisticamente.

La definizione puó essere considerata un "pacchetto" contenente diversi doni a diversi livelli. Creando un definiens dalla combinazione di parole che chi ascolta già possiede, chi parla svolge un servizio per chi ascolta; mette in relazione cose del mondo e il definiens con il definiendum, fornendo cosí alla persona che ascolta l'uso possibile di una parola nuova. Alle "cose", ad esempio i gatti, viene fatto cedere il passo momentaneamente quali doni comunicativi, perché adesso c'é una frasedono sostitutiva che viene data al loro posto — il definiens, ad esempio "felini domestici"; in seguito anche questa combinazione di parole, la frase che costituisce il definiens, "felini domestici", deve rinunciare alla sua posizione equivalente a favore del definiendum, "gatto", che prenderà il sopravvento. Sia i dati esperienziali, la cosa-gatto, che il definiens "felini domestici", cedono il passo al definiendum, "gatto", il dono verbale attraverso il quale avviene normalmente la comunicazione riguardante quel tipo di cosa tra le persone di una data co-muni-tà.

La parola "gatto" viene usata piû spesso dalla gente per parlare di gatti, ed é quindi piû generale del definiens, "felino domestico" o "un animale come quello di zia Maria" o "un animale peloso e amichevole con la coda lunga"; viene utilizzata da piû persone e piû spesso di questi definiens. Questi possono tuttavia essere usati se sorge un bisogno comunicativo contingente di parlare di quegli animali in quel modo, a quel determinato livello di specificità. "Gatto" é dunque piû costante e piû generale di "un animale peloso e amichevole con la coda lunga"; il nome "nome" viene dato a "gatto", e non a delle frasi come "un animale peloso e amichevole" ecc.

Tutti questi doni sono legati tra loro attraverso il bisogno comunicativo meta-linguistico della persona in ascolto e il servizio di soddisfare quel bisogno svolto dalla persona che parla. Quest'ultima non tiene per sé la sua conoscenza del lessico (sebbene alcune élite e gruppi esclusivi lo facciano), ma lo dona liberamente alla persona in ascolto, assumendosi il compito di creare e di fornire un definiens che quest'ultima possa comprendere.

Pur essendo un pacchetto di doni, la definizione non ha un meccanismo di funzionamento interno rispondente al processo donante-dono-ricevente, cui invece, abbiamo constatato, risponde una frase transitiva. Funziona invece per sostituzioni interne ed esterne: sia un dato non verbale che una frase data come definiens cedono il passo a un termine generale, il nome che prende il loro posto come dono sostitutivo che soddisfa il bisogno comunicativo costante.

Vorrei soltanto accennare che il verbo "essere", contenuto nella definizione, sostituisce gli atti sostitutivi rappresentati dal definiens e dal definiendum, che a loro volta gli cedono il passo; questo implica che tali atti sono uguali poiché, in quanto atti, vengono sostituiti dalla stessa parola, che porta cosí accuratamente l'intera operazione al presente (v. Fig. 4).

La relazione delle parole con le parole e delle cose con le parole nella frase "la ragazza ha colpito la palla", é diversa dalla relazione delle parole con le parole e delle cose con le parole nella frase "la palla é un oggetto rotondo usato per giocare". Nella prima, l'intera frase é un dono, e al suo interno c'é il dono di un predicato offerto dal soggetto all'oggetto. Nella definizione, qualcuno fornisce il dono di una parola a qualcun altro che non la conosce, operando delle sostituzioni con qualcosa che

Figura 4. "é" sostituisce gli atti sostitutivi nella frase. Il verbo "essere" é il dono sostitutivo degli atti di sostituzione delle parole- dono per le cose-dono, di "gatto" al posto dei gatti ma anche di "felino domestico" al posto di gatti.



l'ascoltatore già conosce – ad esempio, "un oggetto rotondo usato per giocare" per qualcosa che non conosce, la nuova parola "palla". L'enuncitore è il soggetto che dona, che dà il definiens e il definiendum all'ascoltatore, che diventa ricevente del definiendum come sua acquisizione permanente. Il definiens cede il passo al definiendum, che prende il suo posto, così come la cosa specifica "cede il passo" prima al definiens e poi (in modo più permanente) al definiendum, come suo nome.

L'ascoltatore ha un bisogno meta-linguistico immediato di una parola che non "ha". La memoria e la comprensione di un determinato modello fonetico costituiscono "i mezzi di produzione" di una parola-dono che i parlatori possono dare per soddisfare i bisogni comunicativi degli altri, e che gli ascoltatori possono ricevere, creando mutui legami con loro riguardo a quella determinata cosa. Il parlante dona la nuova parola all'ascoltatore, soddisfacendo così il bisogno meta-linguistico di quest'ultimo.

L'origine dello scambio

Credo che lo scambio sia derivato dai processi di sostituzione e di cedere il passo nella definizione e denominazione. Nello scambio questi processi sono stati trasferiti all'indietro ai modelli d'interazione non verbali e sonostati rielaborati, distorcendoli per mediare il tipo di bisogno co-municativo che sorge dalle relazioni umane reciprocamente esclusive della proprietà privata. Le statistiche mostrano che soltanto una minima parte della proprietà privata – forse l'1 per cento in tutto il mondo – appartiene alle donne (abilissime, peraltro, a svolgere i processi di denominazione e definizione). Per di più, la proprietà privata è un'istituzione propria delle cosiddette società "sviluppate", e non delle cosiddette società "primitive", le quali tuttavia devono pur avere i processi di denominazione e definizione. Così, le relazioni di inclusione del linguaggio basato sul dono precedono lo scambio e le relazioni di reciproca esclusione di proprietà privata che sono da esso mediate. I processi di denominazione e definizione, in cui prevalgono la sostituzione e il cedere il passo, sono stati forzati, strecciati e alterati nel momento in cui sono stati trasferiti sul piano materiale. Ciò risulta particolarmente evidente nello scambio monetizzato, in cui il denaro, a causa della sua funzione di dono sostitutivo, crea un'immagine auto-similare della parola su una scala diversa. Inoltre, in mancanza di una pratica del dono e senza un processo di scambio, l'istituzione della proprietà privata mutuamente esclusiva andrebbe incontro alla sclerotizzazione e all'impossibilità di gestione, dal momento che i proprietari non avrebbero nessun modo di accedere pacificamente al soddisfacimento del proprio bisogno da parte degli altri.

L'uso di questi processi linguistici per evitare la pratica del dono e per mantenere l'isolamento di ogni operatore economico contraddice il principio fondamentale, della vita e del linguaggio, di "donare e ricevere", e crea un ambiente misogino e ostile al quale i gruppi umani devono adeguarsi. In effetti, vi ci siamo adattati talmente bene che ci sembra naturale, e il genere di comportamento aggressivo e competitivo reso necessario per la sopravvivenza al suo interno sembra essere proprio della "natura umana".

L'esistenza degli stessi processi sul piano verbale e su quello non verbale crea molti ri-verberi. Nella società capitalistica attuale, ad esempio, c'è un circuito di retroreazione tra definizione verbale e scambio non verbale, sicché l'uno convalida l'altro e ne assume la funzione. Una persona o un prodotto vengono definiti in funzione della quantità di denaro che "valgono"; i nomi, le categorizzazioni, i titoli professionali – da "poliziotto/a" a "dottore/ssa" – hanno un valore monetario.

Dominare le persone attraverso il salario, che è una definizione mediante il denaro, sostiene la capacità di deno-minare, etichettare e definire gli altri per poterli controllare. I nomi dei prodotti di marca "giustificano" i prezzi più alti. Guardiamo a questi processi di definizione come se dessero "senso" alla nostra vita; se possediamo un titolo, una laurea, un nome da sposati, "siamo qualcuno". Tutto questo denominare, tuttavia, avviene in una società che non riconosce la pratica del dono come il principio fondamentale del significato del linguaggio e della vita.

Restituire i doni alla definizione

Lo scambio si riflette sull'idea che abbiamo della definizione, facendola sembrare asettica: un'equazione intellettuale anziché un pacchetto composto di molti doni. Tra i diversi doni di cui abbiamo già parlato dobbiamo anche considerare, in senso più ampio, che la definizione serve talvolta a trasmettere socialmente le parole tra le diverse generazioni, gruppi linguistici ecc. Inoltre chi parla o scrive, trovando un "linguaggio comune" attraverso l'uso di parole che molte altri già possiedono, sia nel discorso sia nello svolgimento del servizio della definizione, è in grado di co-municare con persone che si trovano altrove nel tempo o nello spazio. Deve perciò riuscire a identificare e a utilizzare i termini di cui già dispongono altri, e/o crearne di nuovi a partire da questi, sebbene gli altri potrebbero aver già fatto da soli lo sforzo di acquisire questi termini tramite l'istruzione, sviluppando un insieme di conoscenze su qualche disciplina o sfera di attività, talvolta con un proprio linguaggio specifico.

Dal momento che il bisogno di definire i termini è comune e che nessuno di noi nasce già con queste conoscenze, le definizioni abbondano nei libri, nei dizionari e nei trattati. Anche la natura delle cose viene esplorata attraverso discussioni in cui si tenta di definire generi specifici di cose. Se è ben congegnato, e fa uso di parole che gli altri generalmente già conoscono, il pacchettodono della definizione può continuare a funzionare indipendentemente da chi lo ha creato; i suoi doni "accorrono" a soddisfare il bisogno del lettore non appena questi apre il dizionario.

Per questa sua capacità di continuare a soddisfare i (meta)-bisogni comunicativi autonomamente, l'origine umana della definizione e la relazione tra donatore e ricevente sembrano avere poca importanza. In un certo senso, potremmo dire che è la società stessa, la collettività, a donarci questi "mezzi di produzione" verbali, stabilendo con noi un legame; per un altro verso, il generoso servizio incondizionato di chi definisce viene facilmente dimenticato nel momento in cui facciamo uso delle parole che ci sono state date per creare le relazioni con gli altri.

L'equivalenza

Quando l'aspetto di servizio o di dono del linguaggio viene ignorato, tendiamo a pensare al fatto che le parole si sostituiscano tra di loro nella definizione, invece che essere rivolte alla soddisfazione del bisogno, come processo basilare del linguaggio. Avviene una sorta di esaltazione feticistica per cui il "significato" sembra provenire dalla relazione delle parole tra loro, invece che dalla relazione mutua tra persone che utilizzano cose o parole riguardanti le cose. Inoltre, dal momento in cui i filosofi hanno concentrato il loro pensiero sulle definizioni per svelarci ogni mistero, dall'umanità a Dio all'Essere in sé, analizziamo le definizioni per scoprire la relazione delle parole al mondo, e vediamo solo delle parole che prendono il posto di altre parole all'interno di sistemi chiusi. Non vediamo le pratiche di cura come comunicazione, e neppure guardiamo al bisogno comunicativo linguistico come a un bisogno socialmente rilevante, che sorge già necessariamente dal mondo e dagli altri e il cui soddisfacimento è un fine che motiva l'interazione verbale e non verbale tra gli individui3.

A causa dell'archetipo magnetico rappresentato dalla logica dello scambio, vediamo il bisogno dell'altra persona solamente come una cosa funzionale al nostro bisogno personale. La sua "domanda" deve essere "effettiva"; lei dovrà avere la quantità di denaro adeguata a sostituire il nostro prodotto e a soddisfare il nostro bisogno comunicativo di denaro4. Non vediamo l'aspetto di "servizio" della definizione, ma soltanto la sua cosiddetta "funzione di verità", se la sua "intensione" (o significato) corrisponda, cioè, alla sua "estensione" (i casi rispondenti a quel tipo di cosa specifica nel mondo).

Ad esempio, l'espressione "il celibe è un uomo non sposato" viene spesso usata poiché il "definiens" e il "definiendum" sembrano corrispondere totalmente: tutti gli uomini celibi sono uomini non sposati. Questo tipo di definizione è un dono che soddisfa solamente il bisogno meta-linguistico di avere esempi filosofici di definizione; l'aspetto della parola come dono meta-linguistico è divenuto secondario. Anche l'orientamento verso l'altro di chi fa la definizione sembra essere irrilevante rispetto alla questione se vi sia equivalenza tra "estensione" e "intensione". L'orientamento verso l'altro viene perciò ignorato, mentre la definizione appare autonoma e asettica, non toccata dalle relazioni umane.

Nel pensare al linguaggio veniamo influenzati dalle priorità dello scambio, dalla necessità di identificare le merci, di misurarli e di valutarli in modo asettico e oggettivo in funzione della loro equivalenza per rispondere ad entrambe le parti (o alla società nel suo insieme). La corrispondenza nel vendere e comprare diventa il modello della corrispondenza tra linguaggio (prezzo) e realtà (merci). La motivazione verso il bisogno dell'altra persona quale fine viene ignorata sia nello scambio che nello studio del linguaggio.

Dal momento che le definizioni sono fatte di parole che ne sostituiscono altre, la relazione delle parole col mondo sembra provenire dalla forma della definizione, dalla forma della sostituzione come un fine in sé, e passa inosservata l'attività creativa del donare, ricevere e cedere il passo. La relazione delle parole col mondo sembra provenire dalla forma dell'equazione X=Y, dalle parole stesse, o dalla volontà delle persone che stanno pronunciando quelle parole. Concentrando l'attenzione sulla sostituzione, senza l'idea di dono, è difficile ritornare al mondo a partire dal linguaggio, e sembra soltanto che "il senso di un segno sia un altro segno"5 e così via, in un'infinita (benché sistemica) regressione, come se le parole non fossero per nulla "agganciate" al mondo.

La pratica del dono su entrambi i livelli

Sembrerebbe che la "rap-present-azione" sia un processo senza alcuna "present-azione" che lo sostiene alla base. Invece, la rap-presentazione (prendere-il-posto-di) è soltanto un momento di un processo del donare che è sia linguistico che non linguistico. Possiamo certamente sostituire un dono con un altro, ma l'intero processo, dall'identificazione del bisogno all'adattamento del dono specifico – parole o frasi – per soddisfare il bisogno, implica molto di più che la sostituzione o il prendere-ilposto- di: implica l'orientamento verso l'altro, la capacità di riconoscere i bisogni dell'altro in relazione al mondo, e riconoscerne le cose come rilevanti per quei bisogni; implica il riconoscere se stessi come persone potenzialmente in grado di soddisfare, utilizzando i tipi di cose adatte, i bisogni di altre persone, e la motivazione per soddisfare almeno i loro bisogni comunicativi, se non quelli materiali; implica, infine, riconoscere gli altri come coloro in grado di soddisfare i propri bisogni. Una prospettiva patriarcale concepisce il mondo come composto solamente di cose per le quali dobbiamo competere, e non di cose che hanno un valore rilevante al soddisfacimento dei bisogni degli altri.

L'orientamento verso l'altro è necessario anche per essere in grado di utilizzare le parole che gli altri potranno capire, per metterci nei loro panni e considerare ciò che esse non sanno come un bisogno che noi siamo in grado di soddisfare. Ciascun bisogno è un tema con diverse variazioni possibili. Il bisogno generale di comunicare sul tema dei gatti – di formare relazioni umane riguardo i gatti – comprende tutti i modi possibili in cui i gatti possono essere presenti o importanti per gli umani. Noi riconosciamo individualmente quei modi come bisogni, che sorgono da contesti linguistici o extralinguistici e che le altre persone potrebbero avere, così da instaurare una relazione con noi rispetto ai gatti. La parola "gatto" ci è stata data socialmente come mezzo per soddisfare tutti quei bisogni comunicativi, o almeno una buona parte di loro.

Dobbiamo essere stati in grado di ricevere materialmente e linguisticamente dalle altre persone nel passato, per essere in grado di dare alle altre persone nel presente. Dobbiamo, cioè, essere stati riceventi dell'orientamento comunicativo verso l'altro di altre persone; dobbiamo inoltre essere capaci di creare nuove frasi secondo modelli del dono trasposti, come mediatori che mettono le parole nella condizione di dare ad altre parole. Dobbiamo inoltre cercare e utilizzare i legami che creiamo linguisticamente con gli altri e rispetto ai doni del mondo per sviluppare le nostre e le loro soggettività sociali. La pratica del dono è il contenuto della forma della sostituzione, che è la ragione stessa dell'esistenza della forma; è ciò che conta riguardo la forma, è la matrice (materna).

Il donare e il cedere il passo non sono stati compresi come pienamente umani. Nel patriarcato sono stati so- pravvalutati la vittoria, la sopraffazione e l'appropriazione. Il cedere il passo è tuttavia un complemento necessario del prendere-il-posto-di; l'essere sostituito è un complemento attivo e necessariamente relazionale della sostituzione; e, in modo analogo, il ricevere è il complemento creativo attivo del donare. Nella definizione, il processo del sostituire e cedere il passo dei doni sono gli elementi funzionali. Nella maggior parte delle frasi di un discorso contestualizzato, il processo di sostituzione non è nel primo piano, e i processi del dono su altri livelli creano trasparenza.

La sostituzione e l'essere sostituito sono i processi in questione nella definizione e nella denominazione, poiché ciò che viene dato è una parola generale, il dono sociale riguardo a un certo tipo di cosa, donato attraverso una serie di sostituzioni. Il bisogno che viene soddisfatto, in questo caso, non è in primo luogo un bisogno contingente di una relazione mutuamente inclusiva con altri riguardo al mondo, ma un meta-bisogno dell'ascoltatore dei mezzi di produzione di doni riguardanti tipi specifici di cose. Forse a causa della forza del modello di scambio (che discende, dalla definizione), il processo del sostituire ed essere sostituito è stato reso unilaterale e il cosiddetto lato "passivo" della relazione è stato accantonato. Con un lato mancante, la relazione della sostituzione (e dell'essere sostituita) o dell'appropriazione (e del cedere il passo) sembra così non essere nemmeno una relazione
6. Il linguaggio sembra non avere niente a che fare con ciò che è stato sostituito; appare invece come un'attività unilaterale puramente verbale senza alcuna relazione con il mondo, come un sistema autosufficiente che fa uso di suoni arbitrari secondo principi governati da regole per "trasmettere" (dare) un "significato" (che comunque non si capisce).

Ad alcuni filosofi che ignorano la pratica del dono, la relazione di "gatto" con i gatti appare astratta, un atto sui generis da parte del parlante (o della comunità), che in qualche modo equipara "gatto" con i gatti, o impone "gatto" sui gatti, tenendoli separati dai cani e dalle scimmie, magari in base a una capacità "trasmessa" (data) geneticamente. Sembrerebbe che denominando una cosa la stiamo inserendo in una categoria, che sembra essere il fine della comunicazione.

Sorge dunque l'interrogativo di che cosa c'entra la categorizzazione con la comprensione. Passiamo così a un tipo di ragionamento legato alla proprietà privata, dato che ci chiediamo quali cose appartengano a quale categoria; così, la persona più sapiente è colei che "ha" più categorie. Sistemiamo le categorie secondo gerarchie di inclusioni e funzioni, "trasformando" frasi particolari, con la sostituzione di nomi più generali per altri più specifici, procedendo verso l'alto lungo diagrammi ad albero della frase e descrivendo le loro interazioni come governate da leggi o da regole secondo ciò che è più appropriato per la loro identità o tipologia; equipariamo poi queste gerarchie alla "comprensione".

Il diagramma ad albero (o a radice) della frase

Un tipo è soltanto un insieme abbastanza importante di cose da avere un nome, perché sorgono bisogni comunicativi che lo riguardano. A un livello meta-linguistico, in effetti, nomi quali "frase nominale" o "frase verbale" servono a denominare tipi specifici di frase perché i professori di linguistica hanno bisogno di parlarne. Le regole della sintassi mostrano il modo in cui le parole e le frasi possono "darsi" l'una con l'altra, mentre i diagrammi ad albero della frase esprimono visivamente la relazione del dono attraverso ramificazioni di dipendenza. I diagrammi ad albero mi sono sempre sembrati rovesciati, finché non ho capito che non si tratta assolutamente di alberi, bensì di sistemi di radici, in cui il flusso di doni va verso l'alto (dal particolare al generale), e non verso il basso (dal generale al particolare).

La creatività linguistica, la capacità di generare frasi sempre nuove utilizzando un numero limitato di parole, deriva ed è accompagnata dalla capacità di riconoscere i bisogni che quelle frasi e parole soddisfano. La pratica umana collettiva di soddisfazione del bisogno tramite un certo tipo di cose dà un valore a quelle cose, che poi viene a sua volta trasmesso in parte o dato per implicazione alle parole-dono che le sostituiscono. Non è la relazione di categorizzazione dall'alto in basso che fa funzionare il linguaggio, bensì una dinamica creativa di soddisfazione del bisogno, che muove sia il linguaggio che la vita.

Ritengo che siano le relazioni di doni all'interno della frase e non l'interazione di categorizzazioni, la forza motrice del significato della frase stessa. Abbiamo erroneamente considerato che l'aspetto denominativo del linguaggio fosse la chiave di questa dinamica; non è l'"applicare" le parole alle cose che crea lo spostamento di livello, portando il movimento "verso l'alto" dal livello dell'esperienza non verbale al livello della pratica verbale; c'è un altro processo in corso, che noi non vediamo.

Diamo qualcosa a un gruppo di cose con la quale esse possono entrare in relazione, quale loro sostituto; poi vi trasponiamo una parte del loro valore, nel senso dell'importanza per gli esseri umani, perché i bisogni vi vengano associati. Il dono sostitutivo riceve una destinazione nella soddisfazione di un bisogno comunicativo, che può anche renderlo utile a distanza nella soddisfazione dei bisogni materiali. Ad esempio, nelle frasi "il pane è nella credenza" o "il treno parte dal binario 12", c'è un flusso di senso o di valore verso l'alto dal mondo di cui siamo parte, e non soltanto un'applicazione dall'alto in basso, o una sistemazione in categorie. Un meta-linguaggio è solamente un insieme gerarchico di termini di categorizzazione, un parassita a spese del linguaggio oggetto perché non ha una dinamica di dono propria.

La ramificazione del diagramma ad albero di una frase dovrebbe invece essere vista come la confluenza degli elementi che possono darsi l'uno con l'altro, un "assemblaggio" cooperativo di termini. Noi possiamo dare "la", o "la" può darsi a "ragazza", e denominiamo questo atto di dono "frase nominale"; poi, come unità, entrambe possono "dare" il verbo "ha colpito" all'unità che viene formata quando "la" si dà a "palla". Possiamo rappresentare queste unità con un diagramma, assegnando loro dei nomi quali "articolo determinativo", "frase nominale", "verbo", "frase"; esse ci dicono quali sono donatrici, doni, riceventi. Diamo alcune parti della frase "la ragazza ha colpito la palla" a parole quali "frase nominale", perché queste le sostituiscano. Crediamo di sapere più cose dopo aver stabilito questa gerarchia; sappiamo chi controlla chi e possiamo quindi destreggarci meglio; ma non ci accorgiamo dei doni di valore che filtrano dal basso verso l'alto.

L'albero della frase è quello cresciuto nel giardino dall'eccessivo denominare di Adamo. Non è perché vengono associate all'interno di categorie né perché seguono delle regole, che le parole restano unite (si mettono in relazione) all'interno delle frasi. È invece perché si danno l'una all'altra, si combinano e poi, assieme, danno se stesse a un'altra parola o parte della frase; e lo possono fare perché hanno ricevuto valore dalle cose (e dalle persone). Se neghiamo il flusso verso l'alto, sembrerebbe che l'unica cosa rimasta sia il meccanismo del denominare dall'alto in basso, e non riusciamo a vedere come esso sia collegato al mondo.

La domanda non dovrebbe essere "dove si dirama l'albero (a frattale)?", bensì "dove confluiscono le radici che portano i doni di valore verso l'alto, alla pianta?". La domanda è "chi nutre chi?" e "chi sta svolgendo le pratiche di cura, il meccanismo del denominare o il meccanismo, atto a conferire valore, della pratica del dono?".

La "mascolazione"

Può sembrare che le parole in sé, regolate dalla sintassi, contengano il segreto della loro relazione con il mondo. Io credo che questa sia un'illusione provocata dalla definizione di genere, che inasprisce il fattore della sostituzione.

Cosa accade quando un bambino scopre di appartenere a un genere diverso da quello della propria madre donatrice? Come in altre situazioni di denominazione o di definizione, il nome o definiendum "bambino" lo porta come cosa materiale e come dono non verbale a "cedere il passo". Prima che capisca ciò che dicono gli adulti, si considera simile alla madre; nel momento in cui però comincerà a comprendere le implicazioni del termine del proprio genere, dovrà rendersi conto che non deve essere uguale a lei. Il fatto che sia denominato o definito bambino (rispondente alla definizione sociale di "maschio") lo porta a rinunciare in modo contraddittorio al carattere del donare, per essere diverso dalla madre (v. Fig. 5). Il nome del suo genere è quindi molto più nocivo per lui di quanto possiamo immaginare. Dal momento che la sua stessa vita dipende dalle cure della madre, il processo di cambiamento di categoria del bambino, affinché diventi uguale al padre, risulta incutere spavento. Il bambino diventa "uguale" a qualcuno che generalmente non conosce bene, e che potrebbe invece non sembrare altro che (come la parola che "prevale") un dominatore astratto. Un determinato aspetto del linguaggio va a "innestarsi" sul carat-

Figura 5. La mascolazione: formazione del genere del bambino.

LA MASCOLAZIONE



La madre cede il passo come "esemplare" per il bambino e il padre prende il sopravvento. Osservare la similitudine con la definizione in cui il definiens cede il passo e il definiendum (il nome) prende il sopravvento.

tere di genere del figlio. Un aspetto del processo della definizione, la sostituzione, prende il posto, in modo auto-riflessivo, del processo del dono, che cede il passo. La categorizzazione diventa più potente della comuni- cazione; le parole non sono più doni comunicativi benefici, ma bacchette magiche in grado di trasformare l'identità dei figli.

La domanda "che cos'è l'uomo?" deriva in realtà da un'altra domanda: "che cos'è l'uomo, se non è simile alla madre?". La risposta è: si tratta di una falsa domanda; egli è simile alla madre, un essere che nutre, ma viene modificato dalla denominazione di genere, che diventa una profezia che si autoavvera. Dal momento che basta una parola a far allontanare misteriosamente il bambino dalla categoria della madre, le parole sembrerebbero molto potenti. E dal momento che il padre ha fatto la stessa esperienza prima di lui, i maschi scoprono una comunanza in tal senso. Il figlio – e forse chiunque nella società – non penserà che è stata fatta una distinzione falsa e arbitraria; la comunità attribuirà piuttosto la differenza basilare del bambino dalla madre ai suoi genitali, e all'evidenza biologica che lui ha un pene, come il padre, che la madre non ha. Ma se le pratiche di cura sono alla base della comunicazione e della comunità, allora non esiste veramente nulla, nessun contenuto disponibile per questa sua categoria di opposizione. È per riempire questo vuoto che la sostituzione, la definizione e la categorizzazione diventano esse stesse il contenuto dell'identità (maschile) delle persone a cui viene detto che non devono essere loro a praticare le cure.

In questo caso le parole vengono assegnate socialmente non come doni, ma come potenti categorizzatrici astratte che si appropriano dell'identità delle persone e la controllano. Secondo il meccanismo di sopravvivenza per cui si tende a imitare il proprio oppressore, i bambini diventano così uguali alla parola, come i loro padri prima di loro. L'identità di genere maschile imita l'aspetto denominativo e "definitorio" del linguaggio, come anche il processo di prendere-il-posto-di, dando importanza all'equivalenza con gli altri, con il padre che prende il posto della madre (che cede il passo) come anche di altri uomini. Il pene gioca una parte importante in questo, poiché è proprio la caratteristica fisica che ci fa collocare il bambino nella stessa categoria del padre.

I simboli fallici sono ovunque, sebbene abbiamo imparato a ignorarli negando la loro importanza. L'equazione stessa, come momento di similarità e di scambio, riceve doni di attenzione e di valore dai molti. I segni di equivalenza (=) sono forse in origine due piccoli simboli fallici. È questa caratteristica (o proprietà) che il bambino ha e la madre non ha e che lo sottrae dalla categoria della madre donatrice. Gli effetti psico-sociali derivanti dall'"avere" o "non avere" tale caratteristica fisica sono diventati estremamente importanti, come vedremo.

Il bambino riceve molti privilegi: a lui vengono spesso date maggiori cure, essendo un maschio, di quante non ne avrebbe ricevute se fosse stato una femmina, come la madre; viene spesso riconosciuto come superiore, anche rispetto a lei. Come la parola, egli ha la capacità di prendere-il-posto-di che, in assenza di un orientamento verso l'altro e della pratica del dono, diventa appropriazione e dominazione. Egli viene "compensato" con quella capacità e quei privilegi, poiché ha ceduto l'identità di nutritore.

Ho coniato la parola "mascolazione" per indicare il processo in cui il bambino viene socializzato con un'identità falsa e non nutrice, incarnando la parola che lo aliena. Mi sembra che questo sia un momento essenziale nello sviluppo del maschio che non viene riconosciuto e che genera, perciò, immagini auto-similari in molti diversi settori della vita. Ripetendo questo processo su diversi livelli sociali, la collettività spera inconsciamente di liberarsi da questo difetto fatale che si è autocreato; esistono però, al tempo stesso, diversi meccanismi che lo mantengono al suo posto e che ci impediscono di vedere in modo chiaro ciò che accade.

1 Ferdinand de Saussure (1931) distingue tra ciò che definisce langue, il lessico, l'insieme delle parole prese fuori dal contesto e connesse tra loro in modo puramente differenziale e parole o discorso. La denominazione e la definizione potrebbero sembrare requisiti indispensabili al resto del discorso, sebbene apprendiamo le parole anche soltanto ascoltandole dal discorso altrui. Ciò che vorrei sottolineare, è che i processi per cui acquisiamo le parole e le consideriamo in sé, a prescindere dal contesto e nella loro generalità, sono diversi dai processi in cui le utilizziamo legandole insieme. Ritengo che i processi di dono interni della definizione siano molto diversi dal discorso e rappresentino modelli nascosti dello scambio; sono ciò che Roman Jakobson (1990b) definiva "equational statements" (enunciati equazionali).

2 Userò il termine definiens per indicare la frase che consente all'ascoltatore d'identificare ciò che la "nuova" parola rappresenta, e definiendum per la parola che si sta definendo, la parola "nuova" stessa o il nome. Nella frase "il gatto è un animale domestico dalla lunga coda e le orecchie a punta", "gatto" è il definiendum e "un animale domestico dalla lunga coda e le orecchie a punta" è il definiens.

3 Senza l'altruismo, cioè l'orientamento verso gli altri, non potremmo giustificare l'esistenza della società né della cultura. Nessun gruppo può sopravvivere come compendium di egoisti isolati; la coesione sociale è assicurata dalla pratica del dono occulto e dall'orientamento verso l'altro/a da parte di tutti, in particolare delle donne.

4 Di solito, non consideriamo che la comprensione dell'ascoltatore sia compiuta nel soddisfacimento stesso del suo bisogno ma dobbiamo sentirla espressa in altre parole, così come il bisogno dell'acquirente deve essere espresso in denaro perché costituisca una domanda effettiva; in caso contrario, non "esiste" per chi vende.

5 L'approccio di semiosis illimitata avviata da Charles Sanders Peirce (1931- 35) ha catturato i suoi discendenti decostruzionisti (come quelli di Saussure) in una regressione senza fine, prendendo sempre la posizione definitoria, lontana dal piano della co-muni-cazione della pratica del dono materiale. Catene di sostituti negano l'importanza del "presente"come dono che soddisfa il bisogno.

6 Il movimento della non violenza di Gandhi ha dimostrato l'importanza politica del "cedere il passo", mostrandoci ciò che le donne stavano già esercitando personalmente. Rispondere alla sopraffazione con il "cedere il passo", permetteva ai sopraffattori di capire che, tra l'altro, la loro azione era relazionale. Il donare e il cedere il passo sono i presenti alla base della relazione di rap-present-azione.


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