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Capitolo quattordicesimo

Meritare di esistere

Le contraddizioni umane nel mercato

Mi sono sempre chiesta come sia possibile che il profitto derivi dallo scambio individuale equo. La risposta che intravedo è che il profitto scorra dai settori del non scambio allo scambio e al mercato attraverso i doni. Questi doni vengono in primo luogo dal nostro dare va-lore all'eguagliamento (come fanno le madri dando valore alla somiglianza del figlio con il padre), in secondo luogo dal nostro dare valore all'orientamento verso l'ego e allo scambio, terzo, dal nutrire/prendersi cura del lavoratore e quarto dal dare al capitalista attraverso il plusvalore. Esiste un altro scambio "equo", tra lavoratore e capitalista, al quale il valore viene dato dall'esterno. Il lavoratore accetta di lavorare per un salario, ma solo perché non può sopravvivere in un altro modo. L'orario lungo, l'attenzione, la manodopera in più e la fedeltà so-no doni dati in cambio del "privilegio" di essere pagati con la tariffa corrente per il lavoro di un certo tipo. "Salendo" di uno scalino logico, la possibilità di avere un lavoro retribuito, nella scarsità, è un "dono". L'attenzio-ne, l'onestà, la fedeltà, l'eccellenza sul lavoro e il buon umore vengono dati in cambio del "dono" del lavoro (potremmo considerarlo in pratica come uno scambio reciproco di doni, come avviene in alcune società precapitaliste). Mentre su un certo livello gli scambi di mercato possono essere equi, su un altro livello ci sono doni non visti che vengono dati costantemente a questi scam-bi, attraverso di essi e intorno a essi.

Il "plusvalore" secondo Marx è il valore di lavoro in eccesso rispetto a un salario basato sul costo per riprodurre il lavoratore. In realtà, il plusvalore costituisce un dono dal lavoratore al capitalista. Visto che il lavoro-do-no della madre o moglie non viene monetizzato nella riproduzione del lavoratore, anche il valore di questo confluisce nel plusvalore. I posti di lavoro scarsi vengono sopravvalutati, e i doni scorrono verso di essi e verso coloro che li hanno, da coloro che non li hanno.

Gli operatori economici non prestano generalmente attenzione alla natura della fonte, ma soltanto ad accumulare quantità per un uso futuro senza una varietà qualitativa. In questo sono giustificati dalla sala-degli-spec-chi, dall'auto-similarità di tutti gli scambi equi che avvengono nel mercato e ai diversi livelli che costituiscono il contesto di ogni scambio. Inoltre, l'omogeneità o il carattere "di singola parola" del denaro permette al mercato di sostituire il vocabolario linguistico diversificato qualitativamente con la gerarchia quantitativa dei prezzi1. Nel mercato, l'unico modo per denominare e quindi riconoscere e apprezzare un dono come valore è scambiandolo per denaro, cosa che però contraddice il suo carattere di dono. Così il dono rimane invisibile e svalutato.

Il profitto proviene, in parte, dal nostro dare all'u-guaglianza, e darle valore piuttosto che al bisogno. Chi partecipa allo scambio equo viene stimato di valore, e non chi ha semplicemente un bisogno. Qualsiasi eccedenza che sarebbe altrimenti andata alla persona che ha semplicemente un bisogno è così "libera" (free) di fluire come dono nel profitto dello scambiatore equo. Chi ha un bisogno è considerato iniquo, sempre che non abbia anche lui qualche altro prodotto o denaro risultato da una qualche transazione precedente. In realtà, essere uguali nello scambio implica semplicemente che le per-sone che praticano il comportamento dello scambio hanno prodotto merci scambiandole con altri gruppi di persone ugualmente egoiste e rivali. La loro uguaglianza come attori e come valori nel processo di scambio implica l'interscambiabilità, la sostituibilità reciproca e la loro mancanza di legami implica l'indifferenza.

Esistono bisogni che provengono dal processo di scambio stesso – come i bisogni derivanti dal processo della mascolazione – che devono essere soddisfatti con i doni dati a quel processo dall'esterno. La modalità del dare si mette da parte perché lo scambio prenda il sopravvento, trasferendo il proprio valore potenziale sconosciuto come modo di distribuzione allo scambio, nutrendolo e nutrendo coloro che lo praticano. Se si sfida lo scambio, se c'è abbondanza di un prodotto, ad esempio per la sovrapproduzione, i prezzi scendono; se i prezzi scendono, più valore del prodotto è dato al consumatore come un dono, e la futura produzione per lo scambio viene messa a rischio.

Il mercato, come l'ego mascolato, è un'invenzione psico-socio-linguistica artificiale che fa uso della decontestualizzazione. Come l'ego, ha bisogno di ricevere va-lore direttamente (senza uno scambio) dalla pratica del dono, mentre allo stesso tempo le fa concorrenza e vince. Le persone che partecipano all'invenzione artificiale, che stanno facendo lo scambio, sviluppano il bisogno di essere valutati in opposizione a chi è esterno al mercato; e hanno anche bisogno di essere mantenuti dagli altri. Per essere motivati a impegnarsi in questa pratica artificiale, aggiungono una ricompensa extra per se stessi (un "incentivo") al prezzo dei loro prodotti. Il profitto che ricevono è un dono, non solo dai produttori di plusvalore (e coloro che nutrono i produttori), ma anche daicompratori dei beni scarsi. È un contributo di doni dai molti sconosciuti di cui non sono coscienti. La scarsità di posti di lavoro e la scarsità di beni funzionano insieme per tenere in alto gli scambi equi e mantenere il flus-so di doni diretto agli "abbienti".

Meritare è un modo auto-similare di dare valore non soltanto a coloro che scambiano, ma anche allo scambio. Coloro che producono per il mercato meritano una ricompensa. Coloro che scambiano ricevono il valore di essere definiti equamente come avversari appartenenti alla stessa classe contraddittoria. Vengono considerati superiori a chi è disoccupato o non impiegabile, a chi non può vendere o comprare. L'uguaglianza tra i loro prodotti e il denaro sembra implicare l'uguaglianza (mutuamente esclusiva) tra di loro, così come la capacità di usare le stesse parole riguardo cose simili implica un'u-guaglianza (mutuamente inclusiva) tra gli interlocutori.

Se i nostri ego comunitari si sviluppano attraverso il linguaggio e il dare materiale, allora lo scambio, l'intera-zione materiale del non-dare, può essere visto come la base di un particolare tipo di ego. Materialmente sviluppa un proprietario privato, mentre psicologicamente sviluppa un ego che è funzionale al processo e alla proprietà: competitivo, che si batte per avere di più, per avere e/o essere il definiendum, e per diventare l'uno mascolato privilegiato.

Chi ha un ego adattato allo scambio accede alla classe dominante dei molti egoisti, che stanno cercando di essere tutti uni privilegiati. L'azione competitiva del macho individuale coincide con la logica della sostituzione prendendo il posto della pratica del dono. Così fanno anche le nazioni, le classi, le razze o le religioni mascolate, sopraffacendone altre che sono costrette a cedere e dare valore e beni ai conquistatori. I gruppi che riflettono se stessi sopraffanno i gruppi orientati verso l'altro e sono da essi nutriti. Gli ego prodotti dallo scambio definiscono "civiltà" la propria espansione e l'espansione del sistema di mercato.

La definizione come modello: un altro giro di vite del-l'auto-similarità

Il genere è in realtà una cosa che noi creiamo e continuiamo a imporre a noi stessi, ma per la cultura sembra essere biologico e, perciò, impossibile da cambiare. Tendiamo a considerare costanti i ruoli di genere e a considerare variabili gli adattamenti dell'individuo. Ad esempio, le differenze di temperamento individuale sono viste come differenze di genere: di una bambina aggressiva si dice che "si comporta come un maschio"; di un bambino compiacente che "si comporta come una femmina". L'i-dea che una nostra caratteristica sia propria della nostra natura ci porta a guardare dentro di noi per trovarla. Ma se è una costruzione culturale stiamo cercando qualcosa, almeno nelle prime fasi, che non esiste ancora dentro di noi, che dobbiamo creare, secondo i modelli e le definizioni che ci vengono dati. Il linguaggio stesso è un importante elemento modellante. Torniamo a considerare qual è il suo funzionamento nella mascolazione.

Non ci siamo resi conto di quanto i fattori culturali siano responsabili della definizione di genere perché la forma della definizione è intrappolata nel contenuto di genere e la sua genesi concerne la sua pratica presente. Questi sono fattori culturali complessi che facilmente ci confondono. La definizione di genere incarna la struttura della definizione nel suo contenuto, quando il maschio prende il posto della femmina. Il comportamento maschile si sforza di assumere la posizione generale del definiendum di sopraffazione. Noi riconosciamo questo comportamento come una cosa legata alla parola "maschio" e lo reinseriamo nell'equazione originaria, determinando una struttura sociale auto-similare. C'è un meta-livello coinvolto, anche se forse non ce ne rendiamo conto. Noi inseriamo la forma della definizione nel genere; poi reinseriamo il genere nella forma della definizione.

Immersi come sono nel linguaggio, i termini di gene-re sono mascherati per sembrare uguali ad altri termini2, e il travestimento si aggiunge al loro potere come profezie che si autoavverano. L'auto-similarità tra i termini di genere e i loro referenti, aggressivi e prevaricatori nel ca-so dei termini per maschi, oppure nel caso di termini per femmine non competitive, con le cose che cedono il passo, fa sì che il mandato di comportamento di quei termini appaia come incassato all'interno dei termini stessi (v. Fig. 22). Il mandato sembra risiedere "all'inter-no" dei termini ma in realtà dipende da un contesto esterno che è già stato influenzato dal mandato stesso per generazioni. Quando il figlio lo prende come un modello, il comportamento di genere del padre è già stato influenzato dal termine "maschio" che si autoavvera. La madre, come sua madre prima di lei, rinforza l'errore cedendo il suo essere modello per il bambino. Quando lo dà all'altra categoria perché è una donna, diventa il modello del dare via e cedere il passo per la bambina.

Il padre, che è in rapporto come esemplare alla parola "maschio", assume nella famiglia anche la posizione

Figura 22. I ruoli di genere e la definizione coincidono, creando immagini auto-similari sui livelli della forma e del contenuto.

della parola, prendendo il posto della madre come esemplare. Nel frattempo la "cosa" – la madre – legata a questa "parola maschile" si mette da parte come esemplare, assumendo la posizione relativa di una tra i molti. La figlia ne segue l'esempio mentre il figlio seguirà allafine le orme paterne. È così che sorge l'analogia con il nostro processo del concetto, in particolare quando la parola prende il posto dell'esemplare, che non sarà quindi più necessario come punto di confronto per sostenere la caratteristica comune delle unità relative.

La madre cede la posizione d'esemplare e assume la posizione di una cosa tra le molte cose legate al padreparola che adesso mantiene la polarità per quella categoria. La posizione di esemplare (auto-riflettente) del padre coincide con la parola perché, come questa, domina sulla madre in quanto esemplare. Questa situazione familiare si ripete anche nella definizione, dove il definiens svolge un servizio e cede il passo, funzionando come la madre. Il definiendum prende il sopravvento come equivalente permanente e sostituto delle cose di quella categoria, funzionando come il padre. Il padre possiede il fallo e la madre, ed è la "parola-esemplare incarnata" del concetto di bambino e forse di tutti i concetti (come potrebbero vederlo i bambini di entrambi i sessi)3. Ancora una volta, la situazione in cui l'uomo prende il posto della donna (e i valori patriarcali prendono il posto dei valori delle donne) ripete la situazione in cui l'intero processo di scam-bio prende il posto della pratica del dono.

Le donne servono e si fanno da parte, e l'economia del dono si fa da parte, mentre gli uomini si fanno avanti e prevaricano come equivalenti al centro dell'attenzione. Questo schema si può vedere riflesso anche in un altro modo nella definizione. Il carattere del definiendum si riflette all'indietro sul definiens quando il contenuto è maschile; e viceversa, quando il contenuto è femminile, il definiendum diventa "femminile", più simile al definiens. Ad esempio, nella frase "le donne sono il sesso debole", "sesso debole" come definiens si fa debolmente da parte, e "le donne" prende il sopravvento come definiendum. Così, il contenuto (le donne come cose o esse-ri che cedono il passo) entra in risonanza con la funzione di transizione del definiens di cedere il passo. Le "co-se" (donne) legate al definiendum hanno in questo caso caratteristiche del definiens.

"Gli uomini sono il sesso forte" funziona nel senso opposto, con la forza che ripercuote o ripete le caratteristiche "prevaricatrici" del definiendum, che prende il posto del definiens. Le "cose" (uomini) legati al definiendum hanno in questo caso caratteristiche del definiendum. L'auto-similarità costruisce quindi un ponte tra il livello del contenuto e il livello della forma nella definizione. Nessuno dei due livelli dev'essere necessariamente così, ma su entrambi grava la funzione che svolgono nella costruzione sociale del genere. Dopo che la definizione è stata incarnata nel comportamento "prevaricatore" mascolato, la definizione di genere si ripercuote sulla propria immagine comportamentale eterosessuale.

Il livello epistemologico, costruito in base alla grana donante e ricevente, è sicuramente influenzato dal modo in cui creiamo le nostre definizioni, ed è infettato dalle nostre errate interpretazioni culturali di genere. Gli es-seri umani sono portati artificialmente nei ruoli "maschili" e "femminili" perché noi interpretiamo male i nostri "dati" fisici ad implicare la nostra appartenenza a categorie drasticamente diverse, quasi a specie diverse. Il maschio crea artificialmente un contenuto per il proprio genere ripercorrendo alcuni passaggi della categorizzazione, e questo schema torna a riflettersi sui meccanismi linguistici che avevano imposto inizialmente la categorizzazione. Le femmine permettono che questo modello si ripeta servendolo e questo le porta a farne parte perché, in realtà, è uno schema asimmetrico di nutrimento e categorizzazione-dominazione.

La modalità del dare è quindi imprigionata in una relazione con la categorizzazione che vi si oppone. Quindi cede il passo come principio da applicare coscientemente ed è cancellata dalla dominazione, la quale, in un moto auto-similare, prende il sopravvento. C'è complementarità fra le due modalità in conflitto al livello d'oggetto e al meta-livello. La denominazione del bambino come "maschio" è proiettata nei rapporti umani nella società, e questi riconfermano la denominazione del bambino come "maschio" (v. Fig. 23). Così ogni definizione diventa un esercizio di eterosessismo artificiale. Ogni definizione riecheggia le proiezioni sociali della definizione di gene-re; quindi la definizione di genere è riproiettata continuamente sulla coscienza individuale attraverso il nostro discorso, la nostra capacità di autodefinirci e di definire gli altri. La definizione stessa diventa la norma e dequalifica non solo il servizio del suo definiens femminile, ma l'importanza e persino il diritto a esistere di chi non corrisponde ai suoi schemi eterosessuali.

Ad esempio, i giudizi dei bigotti di destra hanno un aspetto di autoconferma perché la forma eterosessuale della definizione (e della denominazione) convalida il dominare e dequalifica l'importanza di coloro che cedono il passo alle loro definizioni. Attraverso gli epiteti usati dagli adolescenti per dominare le adolescenti, "cagna" e "puttana", o i giudizi espressi dai capi, mariti o altre figure autoritarie, "incompetente" e "stupida", alle donne si chiede che cedano il passo al definiendum prevaricatore quando lo dicono loro, gli uomini mascolati che le donne servono.

Gli atteggiamenti sprezzanti nei confronti dei gay, delle diverse etnie, ideologie, religioni ecc., "degenerano" spesso anche nella violenza fisica. Chi definisce prende il sopravvento e chi è definito cede il passo. I de

Figura 23. L'azione reciproca della mascolazione e della definizione genera le auto-similarità sociali

Impressione dell'autrice di un frattale sociale derivante dalla mascolazione inserito nella definizione. Al lettore si chiede di immaginare le differenze in scala

finitori che prevaricano sono "diventati" i definiendum, i definiti sono "diventati" i definiens, o la cosa che cede il passo.

Noi non riconosciamo l'eterosessualizzazione della forma della definizione in parte perché le abbiamo dato un "esemplare" che ci fa ignorare il suo funzionamento rispetto al genere. Quell'esemplare è l'equazione astratta, che sembra essere la forma o "essenza" della definizione stessa. L'uso della notazione alfabetica "A=B" sostituisce dei segni vuoti prendi-posto per parole o "valori". Giacché i prendi-posto sono vuoti, non generali (come invece sono le parole-dono di cui è stata costruita la generalità in quanto esemplari sostitutivi), sembrano implicare la sostituibilità reciproca: se A=B, B=A4. Inoltre, l'equazione sembra essere semplicemente una versione più complicata della tautologia (completamente reciproca): A=A. Considerare l'equazione, che è un'imitazione semplificata e astratta della definizione, l'"esemplare" di tutte le definizioni, il loro modello o "forma", ci permette di mettere da parte, in quanto irrilevante, la prevaricazione e il cedere il passo che di fatto avvengono nella definizione eterosessualizzata.

Infatti, l'equazione reciproca, neutra (dovremmo dire "sterilizzata"?) prende il sopravvento sulla definizione così come lo scambio prende il posto del baratto e della pratica del dono e anche della servitù forzata. Noi diamo poi valore a questa immagine di neutralità o "uguaglianza" e i processi di prevaricazione, del dare doni e di cedere il passo ricominciano. L'equazione di valore del mercato è usata solo tra quei prodotti che (come gli uomini mascolati nella rete di solidarietà maschile) già appartengono alla categoria ritenuta valida e si occupa sol-tanto della quantità di quel valore. È usata esclusivamente con le cose che già si considerano scambiabili. Nell'equazione tra un prodotto e il suo prezzo, sebbene sembri neutrale, il denaro diventa il definiendum incarnato che prende materialmente il sopravvento mentre il prodotto in scambio cede materialmente il passo. Allo stesso tempo l'intero processo di scambio per denaro prende il posto della pratica del dono.

Il reinserimento della forma eterosessualizzata della definizione nella definizione produce immagini patriarcali auto-similari su diversi livelli sociali. La posizione d'inferiorità delle donne (come quella dei definiens) serve come qualcosa di non visto perché la forma della definizione si reinserisca in essa (e la cancelli). Quindi l'at-tività non vista del dare doni che viene da questa posizione dà valore alla forma della definizione e dell'equa-zione e lascia che questa prenda il suo posto come modello delle interazioni umane. E ne deriva una proliferazione di immagini auto-similari. Le donne, le classi "più basse", i molti, i bambini, il passato, il futuro (tutto escluso gli uomini dominanti dotati di doni nel tempo presente) interpretano il ruolo del definiens rispetto al definiendum degli uomini. Su una scala macroscopica, la relazione si ripete tra le nazioni dove uno domina e mol-ti servono. Ad esempio, gli USA dominano le nazioni nella propria area d'influenza, che cedono il passo e servo-no la sua egemonia economica e culturale. Queste relazioni di dono sono invisibili alla maggioranza della popolazione negli USA.

Il sé auto-similare contro il sé orientato verso l'altro

La definizione (insieme al suo specchio sterilizzato, l'equazione) è incarnata in noi nei processi dell'ego. Prende il posto della pratica del dono orientata verso l'altro e dà valore a se stesso. Fa sì che gli altri le diano valore perché (come ogni definizione) ha bisogno di avere un valore datole dall'esterno, per funzionare.

Nel mercato, sul micro-livello, in ogni scambio c'è anche uno spostamento in "alto" che prende il posto della pratica del dono. Ogni scambio, con la sua equazione di valore che prende il posto della pratica del dono, funziona in modo simile al macro-livello del mercato, che prende il posto della pratica del dono come modo di distribuzione. Il micro-livello e il macro-livello si confermano a vicenda (perché la somiglianza sembra costituire una conferma). Allo stesso tempo, viene dato molto valore dall'esterno al mercato come totalità dominante fatta di innumerevoli scambi, e da lì a ogni scambio è dato valore superiore alla pratica del dono. Analogamente, nel pensiero dell'ego mascolato il micro-livello di eguagliamento e definizione è uguale (nella sua struttura o processo) a espressioni di macro-livello di un'identità maschile autosimilare e auto-riflettente che sopraffà5.

Le incarnazioni su larga scala della parola e della definizione, nello scambio e nelle gerarchie, nelle organizzazioni commerciali e nelle istituzioni sociali, religiose e politiche, funzionano come macro-livelli, che di nuovo confermano i micro-livelli dell'ego mascolato e la forma della definizione o del giudizio (eterosessualizzati). Que-ste istituzioni forniscono anche delle nicchie dove gli ego mascolati possano interpretare i propri destini sociali, creando catene di dominazione. Abbiamo creato delle strutture sociali auto-similari, e diversi livelli sui quali queste strutture possono riflettersi l'una con l'al-tra. La forma della definizione (e della mascolazione) si ripete continuamente, giustificando la maggiore importanza data alla similarità rispetto alla differenza, e il maggiore valore dato ai processi concettuali uno-molti basati sulla norma rispetto ai processi di pratica del do-no diretti al bisogno.

Alla pratica del dono non è concessa nessuna capacità esplicativa, così le attività basate sul dono (e la stessa attribuzione di valore) vengono spiegate da stimati professori come derivanti da categorie e concetti, da sistemi di elementi mutuamente esclusivi, da gerarchie di scelte marginali nella scarsità, o da processi fisiologici o psicologici sui generis, oppure restano un mistero6. La nostra società è intrappolata in una sala-degli-specchi, e noi abbiamo degli specchi nelle nostre menti, nelle nostre organizzazioni e nei nostri portafogli.

Il dare doni, il sé "tendente verso l'altro", non dipende dal pensiero per esistere, perché chi lo pratica diventa socialmente rilevante soddisfacendo i bisogni degli altri e ricevendo da essi. Anche gran parte dell'identità mascolata proviene forse dalla partecipazione al dare e ricevere non riconosciuti, ma la capacità di formare l'i-dentità è attribuita al pensiero, all'equivalenza, al riflettersi, e al "trovare se stessi". L'identità dei donatori e riceventi di doni si crea e viene convalidata nel processo del dare materiale, e non attuando solo o soprattutto un processo analogo, nel linguaggio e nel pensiero.

Per di più, siccome chi deduce la propria identità dal pensiero ha molti altri bisogni, il donatore li soddisfa e dà valore a questa persona (generalmente, non necessariamente, un maschio) in quanto "meritevole". Nel caso in cui la persona con un'identità più astratta raggiunge una posizione sociale generale, chi la nutre può essere visto come uno che dà all'intera società transitivamente attraverso questa persona (è il caso anche di coloro che nelle gerarchie si trovano nella posizione di dare doni servendo chi occupa posizioni sociali più alte).

Le donne hanno elargito cure agli uomini insieme ai loro specchi. Ma invece di distribuire specchi a tutti, dobbiamo posarli e rivolgere i nostri doni l'uno verso l'altro e verso la risoluzione dei problemi sociali che questi hanno creato. Noi donne dobbiamo personal-mente nutrire e risolvere i problemi sociali generali, e non trasferire la nostra autorità agli uomini mascolati auto-riflettenti. Dobbiamo occuparci della società nel-l'insieme, promuovendo il modello della pratica del dono a un livello generale, per tutti. Non solo pratichiamo l'orientamento verso l'altro nella nostra vita personale e nella soluzione dei problemi generali, ad esempio dando denaro, tempo e inventiva per soddisfare i bisogni di pace e dell'ambiente, i bisogni economici e sociali generali, ponendo fine alla fame, alla guerra e all'inquinamento, ma proponiamo la pratica del dono come il modello di uno spostamento di paradigma necessario per tutti.

Pensare ed essere

"Io penso, dunque sono" sono le parole del "esemplare proprietario" privilegiato. Il cogito di Cartesio negava l'importanza dell'esistenza degli altri, della madre, dell'in-tera società e della natura, a favore della propria esistenza individuale. Cartesio assunse una posizione di scetticismo radicale, non accettando niente come un "dato". Il suo primo passo fu quello di decontestualizzarsi dalla pratica del dare e ricevere e cercare di trovare la base auto-eviden-te del suo essere. Visto che dequalificare l'orientamento verso l'altro non permette alla persona che scambia di trovare la conferma della propria esistenza nella soddisfazione dei bisogni dell'altro e nella continua esistenza e benes-sere dell'altro, la persona che scambia deve trovare la propria fonte nel riflettersi da solo. La mancanza di gratitudine del ricevente nei confronti del donatore comporta anche ignorare l'altro come fonte.

C'è un aspetto di auto-similarità nel processo che influenza la formazione dell'ego, e in particolare la formazione dell'ego mascolato nel cogito. Qui, come nello scambio, c'è uno spostamento verso la logica della sostituzione che prende il posto della logica del dare. Un esempio della logica della sostituzione: "pensare" viene fornito, perciò è giustificato l'uso del verbo "essere" (io "sono"). C'è anche uno spostamento dal discorso alla definizione e all'auto-definizione, che lascia da parte i bisogni comunicativi contingenti. Visto che è decontestualizzato (o lui stesso si decontestualizza), l'ego deve general-mente essere convalidato e sopravvalutato continuamente per continuare a esistere. Cartesio ha dato una convalida interna dell'ego concentrandosi sulla sua auto-simila-rità. Il cogito è influenzato dall'equazione e dall'auto-si-milarità dello scambio e implica il dare maggiore valore all'uguaglianza (anche alla tautologia) e alla conseguenza logica, rispetto al bisogno. L'uguaglianza tra il pensiero e l'essere scaturisce dalla stessa fonte: il linguaggio-nel-di-niego-del-dare7. Si suppone che in genere l'essere dell'e-go dovrebbe includere le relazioni con gli altri!

Il dono di Cartesio al patriarcato è stato la soddisfazione del bisogno comunicativo dell'ego per una prova logica della sua esistenza. Questo bisogno è derivato dal-la negazione del dare-e-ricevere doni che dimostra e crea già materialmente l'esistenza umana. L'auto-similarità nel pensiero costruisce una norma, una sorta di specchio sul soffitto cui fare riferimento, un riflesso del sé, che è in realtà un suo prodotto. È un riverbero nel microfono che scambiamo per un messaggio dall'universo o dalla strut-tura della comunicazione e dell'umano, e sembra essere una prova che il sé sia la fonte del sé. Come nel concetto, dove il maschio esemplare è messo in relazione alla parola "maschio", "io penso, dunque sono" è auto-similare, auto-referenziale. Cartesio riconobbe il pensiero come definizione; quindi la definizione stessa è diventata il fondamento tautologico ("io sono io") di "penso, dun-que sono". Qui la definizione ha una fonte prevaricatrice, lui stesso.

Il pensiero definizionale riflesso nell'equazione di-venta la "marca" dell'"uno" che è l'esemplare del concetto di esistenza. Entrambi sono sopravvalutati, come lo scambio. Come il fallo, cioè la "marca" auto-similare che pone i maschi nella categoria privilegiata, il tipo di pensiero che Cartesio stava elaborando nel momento in cui formulò la sua frase immortale pone coloro che lo elaborano in una categoria privilegiata in quanto "esistenti" e quindi prende il posto del dare come giustificazione dell'essere. Il pensiero definizionale e il verbo "essere" funzionano entrambi con l'uso della sostituzione, e "essere" porta il pensiero (gli atti di sostituzione in rap-porto alla parola) nel presente. Il pensiero si definisce definizionale, equazionale, logicamente consequenziale (se/allora), invece che pratica del dono trasposta8.

Ma l'"essere" di qualcosa significa soltanto che questo qualcosa è socialmente abbastanza proponibile perché venga messo in relazione con le parole (per altri), con un atto che può essere sostituito con il verbo "essere". Quindi, pensare è un'attività socialmente valida, e il soggetto sociale che lo sta facendo "è", soprattutto se riesce a renderlo valido (per altri). Il fatto che Cartesio dice che sta pensando comporta un carattere sociale generale del pensare, che lui identifica con se stesso. "Sto pensando" è auto-referenziale e sembra ovvio o chiaro perché è auto-similare: chiamiamo quest'attività – espressa in frasi quali "penso" "sono" e "penso, dunque sono" – il pensare. C'è uno spostamento verso la sostituzione all'interno della frase stessa, così come succede con il verbo "essere". Questo soddisfa i bisogni altrui di sapere che esistono, quando leggono il suo libro. Che dono!

Ma Cartesio in realtà non era solo, sebbene fosse decontestualizzato, perché il pensiero doveva già aver valore per altri perché potesse stare in relazione con una paroladono quale suo nome e in relazione ad altre persone della frase. Nella sintassi sia il pensiero che le parole sono prove dell'esistenza di altri, e del contesto in cui il pensatore (presumibilmente decontestualizzato) sta operando. Al pensare è stato dato valore dai molti nel passato.

Ma anche al pensatore nel presente è dato valore, non solo da lui stesso, ma da tutti quelli che lo nutrono in modo generale come parte della società, e individual-mente come una persona che conoscono. La formula è: prendiamo il pensiero come la caratteristica importante (l'invariante sensoriale?) della cosa che è l'esemplare, poi che diciamo lo stiamo facendo (pensando), perciò siamo uguali all'esemplare quindi sostituibili dall'esem-plare e dalle parole che si sostituiscono a esso, quindi i nostri atti sono tutti sostituibili dal verbo "essere", perciò esistono e noi esistiamo. È un altro "avere" che ci fa "meritare" di esistere; noi corrispondiamo alla parola "esistenti". Forse potrei chiamare questo critica "linguistica anticartesiana": Cartesio stava solo ri-scrivendo il pensare come essere, o viceversa; e (come Chomsky e i molti altri pensatori che sono stati guidati male dalla mascolazione) egli sopravvalutava l'importanza del processo stesso di ri-scrivere (ri-nominare).

L'essere è maschile

Appartenere alla categoria privilegiata è un requisito indispensabile per diventare magari alla fine una sua norma. Per i bambini maschi è la possibilità di diventare un uomo, un padre, un esemplare per la famiglia e per l'"umano"; oggi, sia per i bambini che per le bambine, potrebbe implicare una posizione professionale di successo. Essere un membro della categoria privilegiata crea il bisogno di continuare a essere rilevanti in quel ruolo, per meritare la definizione. Per i bambini maschi (e altri scambiatori) è il bisogno di sviluppare un'identità mascolata (dello scambio), che significa sopraffare, cedere la madre e la pratica del dono ecc.

Il dono che il maschio (o la persona che scambia) cede è la sua identità nutrice "femminile" (in realtà, umana). Gli altri gli danno valore per questo, almeno economicamente, e lo ricompensano con l'autostima concessa a chi agisce secondo la norma mascolata, diventando una persona che ha successo "nel sistema". Queste per-sone sembrano esistere e "meritare di esistere" più di quelle che non hanno successo. Abbracciamo il paradigma dello scambio, così come da piccoli abbiamo abbracciato il linguaggio, o come i bambini hanno assunto la loro identità maschile. Sembra che sia così semplice-mente perché le cose stanno così.

Abbiamo detto che il verbo "essere" sostituisce gli at-ti di sostituzione delle altre parole nella definizione, dan-do all'essere una parziale affinità con la mascolazione econ lo spostamento verso lo scambio. "È" (IS) diventa simile a "$". Il grado di esistenza degli uomini sembra superiore a quello delle donne, come anche quello di alcune razze e classi rispetto ad altre. Se poi aggiungiamo l'i-dea di meritare, possiamo vedere come i diversi "spostamenti" su un livello "superiore" convalidano tutti la presunta superiorità dei maschi bianchi della classe alta, che sembrano "meritare di esistere" più di altri.

Svolgendo il ruolo del definiendum nella tautologia ("io sono io") o in "sono un essere pensante") i maschi stanno sostituendo l'atto di sostituzione, come il verbo "essere" che sostituisce l'atto di sostituzione nella definizione. Essere sembra implicare essere mascolato e il più mascolato (o il più spesso mascolato) sopraffà gli altri, e "merita" di esistere più di tutti. Questo avviene perché l'"essere", come la mascolazione, è già collegato alla sostituzione e allo scambio.

Gli ego mascolati sono i categorizzatori, che includono se stessi nella categoria come esemplari, convalidati dal verbo "essere" e dal denaro, quindi usano "naturalmente" il denaro per sostenere la loro stessa esistenza. Come potrebbero meritare di essere categorizzatori se non meritassero di esistere? Perciò quelle donne o classi >o razze o gruppi di preferenza sessuale a cui viene fatto credere di non meritare di esistere (non sono "abbastanza bravi") devono giustificare la propria esistenza prendendosi cura di coloro che "meritano", servendoli. (Ognuno di loro può anche essere messo nella categoria dei non meritevoli da parte di chi controlla la definizione). L'"esistenza" diventa quindi nient'altro che una delle categorie privilegiate.

Lo scambio pone le persone e le cose in una categoria speciale, che riceve valore dall'esterno. Nel loro ruolo di dare valore a quella categoria, anche i molti che servono i meritevoli meritano. In un certo senso, sembrano partecipare alla categoria privilegiata per procura. Dando valore al sistema e aiutando un'altra persona ad avere successo nel sistema, ci poniamo in una catena di transitività, così che alcuni beni scorrono verso di noi dagli scambi di chi sta in quella categoria. È il caso delle mogli che "non lavorano", che ricevono gli scarti dello scambio. Il fatto che alcuni beni tornino indietro fa apparire lo scambio come la fonte dei doni, il grande nutritore.

Questa è una ragione per cui noi donne continuiamo a nutrire lo scambio e coloro che scambiano con la nostra attenzione, il nostro amore e il nostro lavoro non monetizzato. Il modello della mascolazione ci appare più attraente e meritevole del modello della pratica materna, e noi gli facciamo da madri. Nella pubertà scegliamo il modello mascolato come più vitale del modello materno. Molte figlie lasciano le loro madri (almeno nello spirito) perché si convincono che la mascolazione sia umana, e che sia loro dovere nutrire qualcuno in quella categoria o diventare qualcuno in quella categoria, qualcuno che "contribuisce" e che, perciò, merita di esistere e di essere nutrito.

La persona che non riesce in qualche modo a meritare di esistere rimane nella terra di nessuno. La sua mancanza di "autostima" è dovuta in realtà alla cooptazione dell'esi-stenza (privilegiata) da parte di donne e uomini mascolati con successo e di quelli che li nutrono. Sia il meritare che l'esistenza portano con sé la sostituzione della mascolazione e dello scambio al posto della pratica di cura. Dobbiamo unirci ai sostituti e rinunciare alla pratica del dare oppure nutrirli, se vogliamo meritare di esistere.

Alle donne può sembrare di poter "bilanciare lavoro e famiglia" mantenendo un'attitudine nutrice verso i mariti e i figli e lavorando allo stesso tempo nell'econo-mia dello scambio. Questo stesso equilibrio convalida però la modalità mascolata. Dando uno stesso valore al dare doni e allo scambio, nascondiamo la creatività e la fertilità della pratica del dono, costringendola a un confronto secondo i principi dello scambio e offuscando le sue capacità come modello; prosciugando l'energia dei donatori. Torniamo a dare poi di nuovo valore allo scambio usando i suoi stessi principi per regolare la pratica del dono.

Gli uomini vengono anche incoraggiati a "riscoprire la parte femminile" che c'è in loro, attenuando gli estremi della mascolazione senza spostare il paradigma. Come il riformismo o la carità, questi atteggiamenti non fanno altro che rendere il patriarcato più vivibile ad alcuni dei suoi membri. Il principio di "niente in eccesso" viene usato in eccesso. I gruppi privilegiati "bilanciano le loro parti maschile e femminile" mentre usufruiscono dei vantaggi di un sistema economico e ideologico sfruttatore mascolato, che costringe i molti nella posizione di dare a loro. Le equivalenze vengono ancora una volta sopravvalutate e i bisogni ignorati. Il giusto mezzo che quantifica le cure (mettendole sullo stesso piano delle non cure) è solo crudele; permette ai gruppi privilegiati di vivere più comodamente l'uno con l'altro, senza risolvere i problemi che stanno causando l'infelicità generale.

Il modello dell'equilibrio, come il modello più palesemente mascolato, scredita di fatto l'aspetto più creativo e originale del dare e ricevere. Confonde le acque integrando il femminile secondo lo standard maschile. C'impedi-sce di guardare ai bisogni che stanno reclamando di esse-re soddisfatti. C'è, prima di tutto, un meta-bisogno che tutti noi possiamo andare oltre l'equilibrio, per soddisfare i bisogni di tutti; ma questo non è certamente un punto di vista equilibrato. I principi della mascolazione e della pratica materna lottano, producendo un effetto altalenante. Siamo come una persona che si sposta da un piede all'al-tro senza mai perdere completamente l'equilibrio per fare un passo avanti o verso l'alto, verso un vero meta-livello; e neanche siamo abbastanza decisi da fare un passo per fermare la distruzione del pianeta.

Tutti abbracciano il modello mascolato: le figlie ammirano i padri e fidanzati e danno per scontate le loro madri; le madri sopravvalutano i figli e i mariti, sottovalutando il proprio sistema di pratica del dono per sé e per le figlie, che spesso alla fine fanno la stessa cosa. Anche se il femminismo ha cominciato a cambiare questo stato di cose, e si scrivono storie, poemi e anche studi sociologici sul pensiero e sul comportamento di cura delle donne, noi non gli attribuiamo lo stesso tipo di va-lore che attribuiamo allo scambio, al pensiero e al comportamento mascolati.

Le pratiche di cura sono l'origine della nostra specie, non la competizione e la gerarchia o la sopravvivenza del più "forte". Le madri umane assicurano la sopravvivenza dei più deboli, i bambini piccoli. E ognuno di noi è debole per molti aspetti: la nostra pelle sottile, lo stomaco delicato, i denti corti e una dieta diversificata ci rendono animali con molti bisogni che i doni degli altri possono e devono soddisfare. La nostra stessa adattabilità permette una proliferazione e una specificazione di bisogni e desideri (ho fame – non solo di qualsiasi cosa, ma dei tamales come li fanno nel Sud del Texas – anche se non so farmeli da sola. Il mio bisogno – in questo ca-so, il mio piacere – è specifico e viene dalla mia storia).

Il processo di identificazione e di soddisfazione dei bisogni – durante il quale impariamo a conoscere le varietà culturali specifiche di beni e servizi con cui si può provvedere a moltissimi bisogni e desideri, e poi effettivamente impariamo a provvedervi e anche a ricevere quelle cose dateci da altri – è il processo umano basilare. Dare più valore alla pratica del dono, e in questo caso alla trasmissione della cultura, potrebbe permetterci di accedere alla generalità che adesso crediamo di trovare nel denaro e nelle altre strutture sociali uno-molti. Adesso il bisogno artificiale di scambio è stato esteso a tutti e crea un grado di generalità nei mezzi di scambio che è avvicinato soltanto dai capi di Stato, le cui immagini, dopotutto, sono stampate su di essi.

La creazione della scarsità da parte di chi merita di esistere

Lo scambio minaccia la nostra possibilità di soddisfare i bisogni degli altri, condizionando la nostra sopravvivenza al nostro essere "adeguati" per produrre, in un processo di "selezione innaturale". Alcune specie di ani-mali sviluppano delle gerarchie in tempo di scarsità mentre, in tempo di abbondanza, il modello di predominio viene allentato, e accoppiamento e nutrimento seguono schemi meno strutturati. La creazione della scarsità che facilita lo scambio tra gli umani fa apparire la modalità gerarchica essenziale per la sopravvivenza. Noi imitiamo il comportamento gerarchico dei gruppi animali oltre al quale ci eravamo già evoluti grazie alla pratica materna generalizzata. La pratica del dono nel linguaggio mantiene il nostro progresso evolutivo su un piano astratto, mentre nel concreto sembriamo essere regrediti, rendendo il nutrimento/le cure estremamente difficili, comportandoci in maniera feroce, parassitica e antagonista.

Le tecnologie di vario tipo, incluso quelle per il rispetto dell'ambiente, hanno le potenzialità per fornire abbondanza a tutti. Questa abbondanza minaccia lo scambio perché lo rende inadeguato e inutile. La pratica del dono in una situazione di abbondanza può provvedere a tutti, e l'abbondanza è necessaria per una pratica del dare efficace che migliori l'esistenza di tutti. Il dare forzato, nell'abbondanza, così come appare nello scam-bio e nelle gerarchie, non ha ragione d'essere perché i bisogni possono sempre essere soddisfatti da una moltitudine di fonti già disponibili.

Le gerarchie vengono usate per ricreare continuamente la scarsità dirottando la ricchezza in eccesso. Esse mantengono così lo scambio come modalità di distribuzione per tutti. Si combattono guerre per contrastare le minacce alle gerarchie e ai mercati da parte di altre gerarchie e altri mercati. Queste guerre distruggono le risorse, creando penuria, e assicurando così la continuazione di un ambiente adeguato allo scambio. Prepararsi alle guerre e spendere il denaro in armamenti ad alta tecnologia e per il sostegno di potenti forze armate esaurisce l'economia civile in "tempo di pace", in modo che l'abbondanza non accumula.

Eppure sembra accadere l'inverso. L'occupazione nelle industrie di guerra nazionali è altamente visibile e lucrativa e sembra "contribuire" all'economia. Ma questi sono lavori che non producono nulla, doni che van-no dalla gente ai lavoratori nelle industrie di guerra; so-no pagati dalle tasse e, volti a proteggere il gruppo o il sistema, sembrano avere la generalità e rilevanza sociale a cui tutti aspirano nella società. Sfortunatamente, i contenuti di quella generalità non sono le pratiche di cura ma la diffusione di morte. I prodotti di quell'eco-nomia non fanno parte mai dell'economia del nutrimento, e vengono invece usati per distruggere l'abbon-danza potenziale della co-muni-tà locale e globale.

La crescente spesa pubblica necessaria in tempo di guerra (e i doni di tempo, energia ed entusiasmo dati dai cittadini patriottici per l'impegno nazionale) immette più elementi di pratica del dono nell'economia globale, che la stimolano (creando maggiore profitto) e permettono però di "usare" la produzione – distruggendola nel combattere la guerra – così da non minacciare il sistema dello scambio, cosa che accadrebbe se restasse nell'eco-nomia creando abbondanza.

Le colonie e i territori conquistati forniscono il lavo-ro-dono (monetizzato al minimo) e le risorse che permettono ai pochi nei paesi colonialisti di accaparrare profitto enorme, che può poi essere reinvestito come capitale nelle industrie di guerra dei paesi colonialisti. I doni vengono così da "altrove" e non minacciano l'eco-nomia monetizzata "sviluppata" con la loro presenza abbondante, perché possono essere velocemente riciclati in una produzione superflua: gli armamenti.

Adesso, nonostante la distanza geografica, il Nord ha trovato che fosse utile creare la scarsità nel Sud median-te la Banca Mondiale e i prestiti del Fondo Monetario, la riconversione strutturale e lo sfruttamento ambientale intensivo. Questo permette di incanalare i doni dei molti in modo ancora più accurato nelle imprese che non creano quell'abbondanza che minaccerebbe il sistema.

Invece, il flusso di doni – la manodopera a basso costo (manodopera che è, in alta percentuale, un dono) e materie prime a basso costo (anche con un alto quoziente di dono) – crea un'abbondanza di beni di consumo alla quale ha accesso soltanto chi lavora nell'economia dello scambio a un certo livello, con la sua "domanda effettiva". Questi beni distinguono ancora una volta gli "abbienti" dai "non abbienti". L'industria della comunicazione utilizza radio, televisione e computer per diffondere informazione, musica e immagini "gratuite", i prodotti dei nostri doni artistici. Questi prodotti vengono "scelti" dal mercato e, quindi, contribuiscono general-mente non soltanto a vendere altri prodotti (modificando bisogni e desideri), ma anche a creare un consenso intorno allo stesso sistema del mercato.

Tutti questi risultati drastici derivano da un gran numero di strutture auto-similari sovrapposte e male interpretate che convalidano la mascolazione. Dai governi al-la lingua, dalle economie alla religione, dall'esercito al-l'università, queste strutture si sovrappongono, si ripetono e si convalidano l'una con l'altra. Il modo in cui formuliamo le nostre idee sull'esistenza, sull'essere e il pensiero decontestualizzato convalida i maschi mascolati attraverso l'affinità tra i loro processi e il processo della mascolazione (che ha comunque origine nella denominazione e nella definizione).

Lo scambio, come sostituzione della pratica del dono con la logica della sostituzione, pone la questione del merito e la questione del potere, e dell'inclusione o del-l'esclusione dalla categoria alla quale si dà valore. Il nostro affermare di "essere", benché possa essere logicamente e temporalmente antecedente allo scambio, convalida lo scambio mediante la similarità e viceversa una volta avvenuto lo spostamento. Molti dei diversi processi di sostituzione – la mascolazione, il verbo "essere", lo scambio, e i giudizi di corrispondenza e di merito – aderiscono tra loro per formare una "realtà" che si autostruttura e si auto-perpetua, una sorta di servomeccanismo che, su molti livelli diversi, prende il posto e sopraffà un mondo basato sul dono sempre presente e an-cora possibile.

La "nuova" realtà sembra essere più valida, più "reale" rispetto a quella originaria che, ciononostante, continua a sostenerla. Anche se ignorato, il processo del dono, come un'ostrica che trasforma in perla un granello di sabbia, continua a dare alla dura realtà dello scam-bio, rendendolo un cammino percorribile e umanizzandolo (fino a un certo punto). Lo status quo mascolato, con le sue gerarchie e gli uni privilegiati, viene mantenuto dai doni delle donne e degli uomini sia all'interno che all'esterno. Come quello che è, sembra meritare di esistere più di ogni alternativa possibile (le realtà alternative delle popolazioni cosiddette "primitive", ad esempio) e noi lo nutriamo.

Nel frattempo, per non essere da meno dei donatori nascosti, chi ha avuto successo nell'economia dello scambio compensa talvolta il proprio egoismo dispensando un po' di carità (generalmente non abbondante) alle classi povere, o proponendo soluzioni tendenziose ai problemi sociali che lui stesso ha contribuito a creare. Ad esempio, ho sentito recentemente di una proposta per cui i bambini di madri con sussidio dovrebbero es-sere mandati in orfanotrofio, come se per occuparsi dei bambini possano essere migliori degli "esperti" professionisti pagati dalle istituzioni invece delle madri single. Dopo aver ridotto le madri in estrema povertà, rendendo quasi impossibile le pratiche di cura, i politici e i "pensatori sociali" propongono di prendere il loro posto con un altro modello paternalistico monetizzato.

La ricompensa, per questi pensatori, sta nel "dimostrare" che il modello mascolato è non solo più efficace ma anche più compassionevole delle madri che curano i figli direttamente. La pratica materna diventa un altro lavoro dal quale le donne possono essere licenziate, con il potere sull'inclusione o esclusione dalla categoria data ancora una volta agli uomini e alle istituzioni mascolati. L'identità delle madri come donatrici di doni non viene riconosciuta e, anche se il loro lavoro non è monetizzato, può essergli portato via. Derubate dei loro figli, sono anche private della loro identità donatrice e della loro identità dello scambio. Non hanno modo di creare un'identità né di meritare di esistere. Non avendo alcuna possibilità di mascolazione data dall'accesso alle categorie superiori, queste donne danno alle categorie privilegiate per contrapposizione, e ricevono una punizione per essere mancanti. Questa punizione mitiga la paura e l'invidia degli aventi facendo espiare alle donne il loro crimine, che sta nell'aver proposto il modello di pratica materna senza gli uomini.

Lo Stato interviene di fatto come sostituto del padre, offuscando ancora una volta il modello della donna. Sia come governo assistenziale capitalista, sia come gestione delle risorse di uno Stato socialista o comunista, la legge o la carità dei padri collettivi dequalifica e spesso distrugge la realtà di un'esistenza del dare.

L'extraterrestre in visita sulla Terra rimarrebbe colpito dal fatto che le donne svolgono circa il 60 per cento dell'attività agricola mondiale mentre possiedono circa l'1 per cento delle proprietà globali. Le femministe pensano di solito a questa curiosa sproporzione in termini di giustizia, pensano cioè di realizzare cambiamenti perché le donne abbiano la stessa quantità di proprietà degli uomini. Vorrei suggerire che la ragione per cui le donne possiedono così poca proprietà è che hanno un modo diverso di relazionarsi con l'ambiente che le circonda. Dobbiamo smantellare le strutture del patriarcato, incluso le strutture della proprietà basate sulla mascolazione, e proporre un modello di proprietà femminile basato sulla pratica del dono.

Esiste la pratica del dono?

Il denaro è il mezzo per soddisfare il bisogno co-mu-ni-cativo, nella comunità di coloro che scambiano, dei possessori di proprietà privata. Il valore di scambio è la pertinenza dei prodotti a una comunicazione mutua-mente esclusiva contraddittoria. Come il verbo "essere", il denaro sostituisce l'atto di sostituzione di un prodotto con un altro.

Io credo che il valore comunicativo delle cose si esprima nelle parole, che prendono il loro posto come doni nel creare i legami umani. Le parole possono anche essere viste come dotate di un valore posizionale relativo l'uno all'altro nel sistema della langue. Se tipi di cose non fossero continuamente pertinenti per gli esseri umani, non entrerebbero in relazione con le parole quali loro nomi (anche se si potrebbe parlarne comunque con delle frasi)9. Quindi, la ragione per cui ognuno di noi ha delle parole che gli sono state date dagli altri, è che que-ste sono in uso in una collettività che è composta da molti altri, che non conosceremo mai.

Il valore di qualcosa per la collettività è al di fuori dell'interazione comunicativa individuale e al di fuori della transazione dello scambio di denaro individuale; è realmente per gli altri. L'identità di un'unità culturale si può trovare nel suo dono sostitutivo verbale, al di fuori dell'interazione comunicativa individuale, nella collettività. Per la determinazione quantitativa di un prezzo il caso è analogo: il prezzo viene determinato in base al va-lore che il prodotto ha per altri nella società che noi non conosceremo mai. Se guardiamo al valore qualitativo delle cose per la comunicazione espressa in parole, e al valore quantitativo delle cose per il tipo di comunicazione contraddittoria che è lo scambio materiale, espresso in prezzi, e li correggiamo con la differenza tra il valore qualitativo e il valore quantitativo, possiamo capire il meccanismo di entrambi.

In entrambi i casi, infatti, è l'importanza delle cose per la comunità che li porta in primo piano nella nostra conversazione, o in primo piano nel mercato. Essi sono "per altri e quindi anche per me". I gatti si chiamano "gatti" in italiano perché per ognuno di noi sono ciò che sono per gli altri; un barattolo di caffè costa 5 Euro anche perché è così per gli altri. Quando la somma che gli altri daranno per il caffè cambierà, cambierà anche per ciascun individuo. Possiamo guardare al va-lore delle diverse parti che compongono il caffè, il prezzo dei chicchi pagati al coltivatore di caffè, il prezzo della manodopera pagato ai lavoratori, il prezzo del trasporto dei chicchi, la macinatura, il prezzo del barattolo ecc.

Ognuna di queste parti, così come altre parti che possono comporlo, dipendono da ciò che quella parte è "per gli altri", ciò che gli altri danno per essa. Per ogni transazione linguistica o economica, l'identificazione di ciò che qualcosa è dipende da ciò che è per la collettività – per i molti – al di fuori della stessa transazione. Abbia-mo parlato del verbo "essere" quale sostituto dell'atto di sostituzione, e del denaro che segue un processo simile. Per gli ambiti linguistico ed economico, qualcosa è valido quando è abbastanza importante per la collettività da avere il suo posto preso da una parola quale suo nome, da "è" quale sostituto di quell'atto di sostituzione, o da un altro prodotto in scambio e dal denaro come suo equivalente nella quantità espressa dal prezzo.

Sia il linguaggio che lo scambio lasciano la pratica del dono comunicativa fuori dal centro dell'attenzione (in particolare quando il valore di scambio è diventato l'esemplare del valore) e questo avviene nella mente collettiva. Gli aspetti del dono nella vita rimangono relativamente inconsci e non discussi. I doni che prendono-il-posto-di-doni (per esempio nel linguaggio) sono stati assimilati allo scambio (che è un vero e proprio modello magnetico) e alla definizione influenzata dalla mascolazione. Per questa ragione, il valore della pratica del do-no non viene riconosciuto collettivamente; non viene quasi nominato10. Sarebbe un paradosso dire che la pratica del dono ha valore: il valore è l'esistenza di qualcosa per la collettività, e l'esistenza della pratica del dono non è riconosciuta dalla collettività.

D'altra parte, se guardiamo sia al verbo "essere" sia al denaro come sostituti dell'atto di sostituzione, possiamo constatare che la pratica del dono – che non viene sostituita – sembrerebbe ragionevolmente non pertinente per il linguaggio né valida per lo scambio. Così, se il linguaggio e lo scambio richiedono entrambi la sostituzione per affermare l'esistenza o il valore, allora la pratica del do-no, che non implica la sostituzione, può sembrare inesistente o priva di valore. La mascolazione, al contrario, che è una costruzione di sostituzioni auto-similari, sem-bra esistere e avere valore. Non sorprende che attragga i molti doni che non vengono dati alla pratica del dono.

D'altra parte, sia l'"essere" che lo scambio per denaro sono influenzati e "afflitti" dalla mascolazione, che reinserisce il principio di sopraffazione nella definizione e nell'economia, così che "essere" o "aver valore" sembrano implicare la sopraffazione o anche essere l'uno o l'esemplare. Ancora una volta, nessuna di queste cose è per "colpa" nostra. Queste contraddizioni sono dovute soprattutto a grovigli logici.

Quindi il verbo "essere" e il denaro riflettono il potere che abbiamo dato al linguaggio per allontanarci dalle nostre madri e dalla Madre. Non consideriamo l'"essere" o il "valore" pertinenti per la sostituzione perché neghiamo la realtà di ciò che è stato sostituito, così come neghiamo la madre (e la terra) come modello sostitutivo, come se non esistesse (specialmente se l'esi-stenza ha a che vedere con la sostituzione). Noi dimentichiamo (for-get) che la madre è attiva e che dà attivamente e cede il passo compassionevolmente. La nostra struttura originaria viene dalla pratica del dono ma, per la mascolazione e per le cure date a chi è stato mascolato e ai suoi processi, impariamo a dare valore agli aspetti definitori del linguaggio e della vita – la sostituzione, l'avere, il mantenere lo scambio e l'"essere" – invece che agli aspetti del dare.

La madre non deve cedere il passo. Se la madre non cedesse il passo, potremmo riformulare la nostra visione del mondo e constatare quanta vita sia già nella sua modalità del dare doni. Potremmo vedere le cose come doni della Madre Terra – non solo come prodotti dei nomi dominanti di Adamo – e le tratteremmo perciò con la cura di cui hanno bisogno se non devono essere distrutte. Molti di noi lo stanno già facendo, apprezzando i doni della natura, della cultura, della sincronicità, la buona volontà e lo stesso dono della vita. Ciò che sentiamo come immanenza dell'"essere" è in realtà il risultato della nostra modalità ricettiva-creativa rivolta con gratitudine verso i doni della vita e della terra, nella sospensione (momentanea) dell'angosciosa mediazione del linguaggio e dello scambio.

Forse potremmo vedere la comunità come parte della Madre, che dà valore alle cose in quanto cose che danno a noi e danno valore a noi, e alle cose che danno valore ai propri nomi, che noi diamo poi l'uno all'altro, dandoci valore. La terra comunicherebbe con noi attraverso i suoi frutti e il canto degli uccelli, i nostri cor-pi e i nostri sé donanti; parteciperemmo a una relazione co-muni-cativa con la natura. Adesso il modello della comunità è formato di proprietari mutuamente esclusivi uno-molti con le loro proprietà, che danno a se stessi un valore-come-posizione e screditano le categorie dei "non abbienti".

La proprietà, che ha a che vedere con la pratica del dono (la proprietà che può essere data e ricevuta), è di-versa dalla proprietà privata che passa attraverso lo scambio. Possiamo creare una relazione di cure con la proprietà, invece che una relazione di dominazione. Forse il paradigma del dono comporterebbe un tipo di proprietà più leggero, più simile alla proprietà dei nostri corpi che (in una condizione di sicurezza) sono essenzialmente condivisibili ma che generalmente per il momento non vengono condivisi. Avremmo una relazione di "amicizia" con la proprietà, di uso, gratitudine e gestione rispettosa. Potremmo considerarla secondo il modello del seno, non del pene, come la proprietà di qualcosa che può dare in un processo in divenire, invece che la proprietà di uno strumento penetrante o di una "marca" che ci pone in una categoria superiore.

Un modello femminile darebbe attenzione ai bisogni e, nell'abbondanza, i bisogni potrebbero proliferare in varietà e specificità. Includerebbero anche i bisogni psicologici di sicurezza e di un legame amichevole con l'ambiente che ci circonda, e chi cura qualcosa sarebbe colei (o colui) per la quale la cosa è. Nell'abbondanza, il bisogno di proprietà sarebbe meno intenso di adesso perché il non-avere comporterebbe semplicemente che i doni verrebbero da un'altra parte. Quando l'avere e il non-avere non sono più investiti psicologicamente degli incubi infantili, la legge e la retribuzione non saranno più "necessarie"; neanche lo Stato avrebbe più ragione di essere, o non gli sarebbe permesso d'intervenire come padre-proprietario della collettività.

Attualmente, il tipo di proprietà che comporta il condividere con serenità e il trarre piacere dalla natura e dalle sue risorse abbondanti è generalmente riservata al ricco come ricompensa per avere di più. Il punto non è impedire a tutti, incluso al ricco, di godere dell'abbon-danza della natura e della cultura, ma di estendere questa possibilità a tutti. Tutti noi dobbiamo capire quanto la nostra società sia rimasta profondamente stregata dal-l'incantesimo di una psicosi collettiva. Dobbiamo curarla e curarci urgentemente.

Le culture delle popolazioni indigene hanno usato e usano in molti casi il modello materno e la modalità del dare, molto più della nostra. Sarebbe interessante scoprire fino a che punto questi popoli hanno integrato i meccanismi linguistici alla loro pratica del dono e quali tipi di proprietà propongono. Gli irochesi, una società matriarcale in cui un consiglio composto di donne aveva un importante potere decisionale e che usava la parola per "donna" (invece che una parola per uomo) per dire "es-sere umano", davano nomi propri diversi a ogni membro tribale; un nome veniva usato soltano quando la persona che lo aveva moriva. I nomi dei membri tribali costituivano perciò una langue, e potremmo considerare i membri della tribù come le "cose" con valore sociale – una cultura, un mondo – in relazione a quelle parole. Nel patriarcato europeo – o puerarchia – abbiamo fatto diventare cose alcune persone: le donne; e altre persone, parole: gli uomini, e noi mediamo tra le loro "proprietà" che hanno valore sociale con il "denaro-parola".

La nostra condizione patriarcale non è certamente il modo più razionale di organizzare la società, rispetto al-la società degli irochesi fondata sul governo delle donne. Tutte le diverse culture che esistevano prima di essere sopraffatte, distrutte e ridefinite dall'Uomo Bianco e dai suoi sistemi erano esperimenti socio-economici intrapresi dai molti. Alcune di esse davano valore alle madri e al-la pratica del dono comunicativa e simbolica; e da que-ste possiamo imparare modi di vivere alternativi.

Nella modalità del dono, "essere" è in realtà co-mu-ni-cazione con la terra o con altri umani, e di fatto noi stiamo ancora moltissimo nella modalità del dono, nonostante la nostra partecipazione allo scambio. Il nostro stesso fare esperienza implica ricevere percezioni sensoriali e informazioni, dando degli scopi ai dati esperienziali nei bisogni che possiamo soddisfare; che siano i bisogni di altri, i nostri, o i bisogni dell'ambien-te che ci circonda. I bisogni crescono in funzione dei mezzi che esistono per soddisfarli; l'orecchio si abitua al tipo di musica che ascolta. Alcuni bisogni sono più fondamentali di altri, ma anche questi si diversificano in gusti e preferenze per i diversi mezzi che li soddisfano, i diversi doni che forniscono Madre Cultura e Madre Natura.

L'esistenza delle donne non consiste in cedere il pas-so o essere possedute o possedere, ma in una relazione completamente diversa con il mondo (e con la proprietà); una relazione che potenzialmente non è mutua-mente esclusiva ma ha la sua "destinazione" nel bisogno e nell'altro. I confini sono resi necessari solo dalle lotte tra gli "uno-molti" per essere "esemplari" più grandi. Se dessimo valore ai bisogni, riconoscendo e apprezzando la loro complessità, potremmo anche riconoscere e soddisfare i bisogni reciproci di avere e di essere indipendenti. Le cure delle donne si estendono ovviamente al-l'ambiente circostante. Dare valore ai bisogni su tutti i livelli ci permette anche di dare valore ai bisogni generali su larga scala.

Oggi il bisogno di curare il pianeta è un bisogno della collettività, ed è affrontato collettivamente senza, però, passare per il modello umano materno. Molti di noi si preoccupano della Madre Terra ma considerano inutile la pratica umana materna. È nel dare e ricevere la pratica materna, tuttavia, che possiamo trovare il model-lo per vivere in pace l'uno con l'altro, per poter fermare la sopraffazione e la distruzione della Terra.

Se potessimo sminuire l'economia dello scambio e le sue motivazioni di avere e non-avere originate dall'invi-dia della castrazione, potremmo vivere in armonia con una sorta di proprietà semi-privata, che sarebbe anche pertinente per la collettività come ambiente. I boschi non sarebbero più preziosi per le compagnie forestali che li possiedono, ma lo sarebbero per gli umani e gli animali che li abitano e che usano i loro doni diretti con rispetto e gratitudine, avendone cura. I boschi trasformati in tronchi d'albero non soddisfano un bisogno rea-le della collettività, ma solo il bisogno di profitto del proprietario privato. Il bisogno dei compratori con la loro domanda effettiva deve essere creato, ma esistono alternative alla trasformazione degli alberi in carta igienica, bastoncini per mangiare, o materiali da costruzione; i bisogni della gente possono essere educati verso di esse e verso il bene collettivo e ambientale.

Invece, su larga scala, lo scambio capitalistico usa la collettività come un mezzo per soddisfare il bisogno di tutti del mezzo di comunicazione economica: il denaro. Il bisogno di profitto è astratto; abbiamo tutti bisogno della stessa cosa, e questo bisogno unitario comune di (più) denaro distorce la nostra prospettiva dei bisogni degli altri. Il valore del denaro è come il valore linguistico di ogni cosa, dell'"essere", visto come sostituzione (sopraffazione), non come immanenza del dono.

Il nulla non è l'opposto dell'essere. L'opposto del-l'essere implica una reinterpretazione del verbo "essere", che comprende una co-muni-cazione non-segnica collegata al linguaggio attraverso il processo del dono che soddisfa i bisogni, non attraverso la sopraffazione o la sostituzione e il cedere il passo. Analogamente, l'op-posto della relazione di proprietà uno-molti11non è il non-avere, ma la proprietà gentile basata sulla donna. A causa della mascolazione, una relazione nutrice di abbondanza con la proprietà sembra essere un premio degli "abbienti" privilegiati; e analogamente, una moglie nutrice sembra una ricompensa data agli uomini per il fatto di essere uomini. Tenere la proprietà lontana dagli altri ci rende incapaci di ricevere e di trasmettere il suo valore, e incapaci di apprezzare la sua pertinenza per un collettivo che potrebbe condividerla. Secondo la logica linguistica, la proprietà è per noi stessi e, dunque, non per gli altri e dunque… neanche per noi. Quando manteniamo qualcosa nel sistema di proprietà privata mutuamente esclusiva non possiamo imitare con essa il modello materno.

Di recente negli USA sono diventati popolari i resoconti sui cosiddetti popoli "primitivi", perché descrivono modi di vivere centrati sulla pratica del dono, che hanno una fonte spirituale. La storia degli aborigeni australiani che viaggiano per l'entroterra senza provviste, la cui sopravvivenza dipende dai doni del creatore – che ricevono – è un esempio di modo di vita basato sul dono (anche sein questo caso in una situazione di scarsità). Queste storie diventano popolari negli USA perché indicano un atteggiamento che ha un effetto curativo per noi, nonostante pratichiamo un'economia che lo contraddice.

Le religioni e le terapie della New Age professano la gratitudine per le benedizioni che riceviamo, ponendoci in una struttura di dono. A questo punto sorgono alcune domande: "Possiamo curarci individualmente o spiritualmente mentre la società a cui apparteniamo saccheggia la terra e distrugge la stessa gente che ci ispira con la sua fede e i suoi sistemi alternativi?"; e "le nostre cure individuali possono cambiare il paradigma, invece di rinforzarlo assimilando individualmente alcuni dei suoi principi?". I nostri tentativi di curarci individualmente e spiritualmente devono essere collegati ai tentativi di curare la collettività e il pianeta.

Al contrario, anche chi tenta di curare la collettività, come il movimento femminista, i movimenti di "sinistra" per un cambiamento sociale ed economico e il movimento ambientalista, devono passare per la cura individuale. Il modello della madre esiste sia sul piano collettivo che su quello individuale. Il paradigma del dono, con la pratica materna quale sua portatrice, è la norma funzionale e poetica a cui la società può tornare.

Secondo la logica della scambio, il sistema di proprietà delle donne merita di esistere per via di quello che ha già contribuito alla comunità. Se vogliamo spostare il paradigma verso questo sistema, però, non possiamo usare la logica dello scambio, ricreando una modalità del contraccambio. Dimenticare (for-getting) la madre vuol dire abbracciare lo scambio, allontanarsi dalla madre mettendo qualcos'altro al suo posto. Quando dimentichiamo (for-get) non per-doniamo (for-give) la madre e la modalità della madre. Dobbiamo invece perdonare tutti uniformemente perché il sistema del dono funzioni; e dobbiamo lasciare le nostre definizioni su un piano verbale invece che incarnarle.

1 I prezzi costituiscono un sistema differenziale come la langue di Saussure, però organizzata secondo la quantità in una progressione numerica invece che secondo la qualità.

2 Alcuni linguaggi non usano specifici pronomi di genere. Altri estendono, in modo compassionevole, le distinzioni di genere a tutti i sostantivi, come per confortare i bambini mostrando loro che ogni altra cosa è anche simile a, o diversa dalla madre, e che questo ha poco rilievo rispetto al loro valore.

3 Si dimentica spesso che la definizione nel suo insieme è un servizio che viene svolto da un parlante o scrittore per un ascoltatore o lettore, e così la relazione tra prevaricare e cedere il passo sembra che abbia luogo tra le parole in sé, senza l'intervento umano. Il valore viene dato alle parole e viene dato l'uno all'altro dagli interlocutori "dall'esterno" della frase, ma generalmente questo aspetto non viene considerato.

4 Nel linguaggio, il bisogno comunicativo è un elemento determinante. I valori astratti dell'equazione sembrano essere più simili a quelli della percezione: percezione X = percezione Y, sembrerebbe un contenuto adatto per un'equazione. Ma non c'è bisogno però di parlare di questa equazione con noi stessi o con gli alti nella nostra vita quotidiana, perché lo sappiamo già. I nostri apparati percettivi funzionano. Ciò che percepiamo è generalmente già un dato, rispetto alla nostra coscienza di esso. I nostri bisogni comunicativi sorgono in relazione agli altri, riguardo le percezioni a cui noi stiamo dando importanza e la loro rilevanza per le collaborazioni, gli accordi, le idee personali o collettive, i miti, le storie, le concezioni del mondo ecc.

5 Quando si stabilisce un ordine gerarchico in cui un maschio diventa l'"esemplare" o prevaricatore rispetto ad altri maschi, chi cede il passo può ancora mantenere la sua identità come "esemplare" e prevaricatore riguardo alla propria moglie e ai propri figli.

6 Anche il "valore-lavoro" di Marx può essere visto come una porzione di valore di dono intrappolato nel processo di definizione dello scambio e filtrato attraverso di esso. Se il lavoro potesse soddisfare direttamente i bisogni, risulterebbe nella co-muni-cazione e attribuirebbe valore alle persone. Tuttavia, dato il mercato, il lavoro speso su un prodotto è espresso relativamente al lavoro speso su tutti gli altri prodotti mediante l'equazione del valore, come va-lore di scambio. In questo, è come una cosa relazionata a una parola (divisa quantitativamente). Marx non ha incluso nessuno degli altri doni dati al processo lavorativo – il lavoro delle donne in casa, i doni dei prezzi più alti o più bassi o i doni della natura – che di fatto contribuiscono al valore del lavoro.

7 Analogamente, l'equivalenza tra lavoro e denaro scaturisce dalla distribuzione che nega e nasconde il donare.

8 Forse l'homunculus, l'omino che i filosofi immaginano stia dentro le nostre teste e riconosca regressi infiniti, è l'immagine interiorizzata del fallo che corrisponde a ogni cosa che è nella posizione di "esemplare" ovunque. Ma, come i filosofi hanno capito, è solo una nostra immaginazione, un riflesso di riflessi. Loro hanno pensato che, se la conoscenza è basata sul riflesso della realtà, e abbiamo una certa immagine della realtà in mente, dovremmo riconoscere quelle immagini e, perciò, avere immagini di quelle immagini. Nelle nostre menti ci sarebbe quindi un certo tipo di omino con immagini delle immagini e un omino nella sua mente con ancora altre immagini ecc. Ciò a cui non pensano i filosofi è che l'homunculus dovrebbe essere sostituito da una donnina (o meglio, una piccola madre, una matericula). Invece di starsene semplicemente seduta a immaginare, di riconoscere l'immagine del bambi-no/a che piange, una madre riconosce il bisogno e interviene: fa qualcosa al riguardo (gli/le dà da mangiare, ad esempio). Quindi, se ci fosse la matericula nelle nostre menti, riconoscerebbe l'immagine del bambino/a che piange ma sentirebbe il bisogno di fare qualcosa in più, di soddisfare cioè i bisogni che l'immagine le ha suggerito. La matericula e l'homunculus gestirebbero in modi diversi il divario tra interiorità ed esteriorità. Questo perché riconoscere le similitudini è più statico, meno informativo, rispetto al processo di soddisfazione dei bisogni. Così, quando soddisfare i bisogni viene trasferito in uno scenario interiore, il processo può rimanere attivo. L'homunculus è totalmente dipendente dalle cure della matericula, perché non può fare altro che riflettersi. Non sembra però creare immagini di matericula, né nella "propria" mente né nel mondo esterno. Forse lei si muove troppo velocemente per lui; forse lei si muove tanto velocemente quanto una scarica elettrica da una sinapsi al-l'altra. Infatti, non potremmo vedere l'attività cerebrale in termini di dare, di un movimento che va da un'abbondanza verso una carenza? In questo caso, non staremmo facendo qualcosa sul piano fisiologico che più o meno si accorda con ciò che stiamo facendo sul piano linguistico e nel mondo esterno? Forse chi è interessato/a alle questioni cervello-mente potrebbe cercare di soddisfare i suoi bisogni con questa teoria-cinematico della realtà (movingpicture theory of reality).

9 Sebbene la relazione fondamentale delle parole fra di loro nella langue di Saussure sia quella di esclusione mutua puramente differenziale, esse han-no invero alcune similitudini coi complessi di Vygotsky.

10 Ad esempio, ho avuto qualche difficoltà nell'usare termini come nurturing ("pratiche di cura", "nutrire") o mothering ("pratiche materne"), che si riferiscono troppo all'infanzia.

11 Incluso la proprietà "uno-molti" dello Stato.


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